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giovedì 31 dicembre 2015

I 10 libri più belli letti nel 2015: da Dostoevskij a Kristof, da Pasolini a Vattimo

Nell'ultimo dell'anno, noi di Caratteri Vaganti vi proponiamo la nostra "Top Ten": i dieci libri più edificanti, suggestivi e belli che abbiamo letto in questo 2015. Sperando che la nostra lista vi dia qualche spunto, vi auguriamo un 2016 pieno di libri, di film e (possibilmente) rivoluzionario!


1. Petrolio, Pier Paolo Pasolini, pubblicato postumo nel 1992. Una discesa nei gironi dell'Italia degli anni Settanta, segnata dal conformismo, dalla sete di potere, dall'imporsi di un modello occidentale privo di alternative, che riduce a sé ogni specificità, da quella popolare del mondo delle borgate, a quella dell'intellettuale di sinistra, ormai perfettamente integrato nei salotti buoni.

2. I Demonî, Dostoevskij, 1873. Come in una tragedia dell'antica Grecia, Dostoevskij mette in scena un dramma collettivo, corale. Quello della lotta contro le ingiustizie, del nichilismo, dell'ossessione, della rivoluzione.

3. Costituzione e lotta di classe, Hans Jürgen Krahl, pubblicato postumo nel 1971. Allievo di Adorno, Krahl fu uno degli interpreti più lucidi della Scuola di Francoforte. Morto all'età di ventisette anni, non ha potuto lasciarci un'opera completa, ma questa raccolta di saggi e interventi getta luce su molte questioni affrontate dai suoi maestri francofortesi, e ci dice molto della sua generazione, dei suoi sogni e delle sue speranze. Quella del 1968.

4. L'analfabeta, Agota Kristof, racconto autobiografico scritto per una rivista di Zurigo. La scrittrice ripercorre la propria esistenza secondo un unico filo conduttore: la lingua. Se per l'Agota bambina l'unica lingua concepibile come universale è l'ungherese, per l'Agota adulta ed esule la lingua ungherese perde la propria globalità e diventa la lingua incomprensibile dello straniero, causa di emarginazione. Lo straniero, l'esule, non è solo colui che non può essere capito. È un analfabeta. Ella scrive: «Questa lingua, il francese, non l’ho scelta io. Mi è stata imposta dal caso, delle circostanze. So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. È una sfida. La sfida di un’analfabeta.»

5. Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, 2010. Una raccolta di saggi che oggi, più che mai, vale la pena leggere. Contro ogni metafisica fondazionale, i diversi autori dichiarano la pregnanza della soggettività. Se, come scrive Rovatti, «la situazione tipica del pensiero "forte" è [...] quella in cui pensante e pensato, chi pensa e cosa si pensa sono solidali», il pensiero debole si propone come ciò che può spodestare l'essere dalla sua centralità e presentare la ragione non più come universale, ma come «una singolarità tra le altre».

6. La metamorfosi, Franz Kafka. Pubblicato per la prima volta nel 1915, il racconto smaschera l'ipocrisia borghese perbenista. Nonostante il nobile intento, Kafka non nasconde (il protagonista ne è, in qualche modo, l'alter ego) al lettore che, dietro l'umiliazione subìta, si nasconde un desiderio, più che conscio, di far parte interamente di quel mondo ovattato di ipocrisia.

7. 36 Poesie, Attilio Bertolucci. Non poteva mancare un libro di poesie, porto ospitale per quei giorni in cui la narrativa non basta.

8. Tungsteno, Cesar Vallejo. Uno dei maggiori poeti peruviani per una sola volta si è cimentato con il mezzo espressivo del romanzo e il risultato è imperdibile. Atti di quotidiana crudeltà e cinismo si consumano nella zona mineraria di Cuzco, dove gli imprenditori statunitensi della Mining Society in combutta con le autorità locali spadroneggiano sugli indios facendone i propri schiavi nelle miniere. È un libro asciutto e vero, che racconta delle violenze operate dai gringos, della vita misera dei mineros che dopo essere stati sfruttati disumanamente possono ripiegare solo nelle loro squallide catapecchie, delle prepotenze operate dalle autorità sui manifestanti e sugli indios rastrellati nei villaggi rurali per fornire manodopera schiavile nelle fucine. Ma racconta anche degli entusiasmi di inizio secolo, delle agitazioni e dell'aspirazione a una vita più giusta.

9. Italiani brava gente?, Angelo Del Boca. Un illustre storico del colonialismo italiano cerca di sfatare, in questo libro ricco e necessario, il mito più solido del nostro Paese. Del Boca sviscera alcuni degli episodi più bui della nostra storia, dalla guerra al brigantaggio che ha visto stragi di ribelli nel sud Italia e decimazioni in villaggi innocenti ad opera del nuovo governo all'indomani dell'unità, alla brutalità della Grande Guerra e alla disinvoltura con cui Cadorna ha destinato al massacro ondate di giovani soldati, alle violenze operate in Africa durante gli anni del Fascismo. Di più ancora: questo libro scava sotto la retorica della conquista, della superiore civiltà italiana, del nostro essere "brava gente", e ci rivela anche gli aspetti meno conosciuti e più dolorosi da confessare: le deportazioni e i campi di concentramento realizzati dagli italiani in Libia, gli ordini ufficiali di decimare la popolazione, lo sciacallaggio operato dai nostri in Cina approfittando della Guerra dei Boxer, i tentativi di pulizia etnica che abbiamo perpetrato nei Paesi slavi (e sui quali abbiano anche ricamato il mito delle Foibe), la prigione di Nocra in cui lasciavamo i detenuti a morire di stenti, privi di acqua potabile e di cibo, per poi fucilarli senz'altro se tentavano di evadere. Queste e altre ancora sono le pagine di storia che Del Boca ci invita ad approfondire, mostrandoci il lato più oscuro e doloroso della nostra italianità.

10. Montedidio, Erri De Luca. «Calo la saracinesca, ci salutiamo, dice che è bello avere le ali, ma è stato più bello avere mani buone per lavorare». Le storie del piccolo protagonista, del calzolaio ebreo Rafaniello, della ragazzina che "ha già conosciuto lo schifo", molestata dal padrone di casa per sanare all'affitto arretrato, si intrecciano sullo sfondo di una Napoli laboriosa e rumorosa, di file di panni stesi che tagliano a fette il cielo azzurro, delle strade animate dalle voci delle comari e dei venditori di pettini. Una romanzo che somiglia a una poesia.


Nina, Bulma e Clem

mercoledì 23 dicembre 2015

Dal Vietnam all’Iraq. Colloqui con Patricia Lombroso, Noam Chomsky


Gli Stati Uniti son ben consapevoli che la conduzione della loro politica estera è da criminali. Siamo in presenza di una nazione violenta che si arroga il diritto di commettere impunemente gravi crimini.

Questa raccolta di interviste, pubblicata dalla Manifestolibri nel 2003, che vanno dal 1975 al 2003, al filosofo americano Noam Chomsky, impegnato sin dagli anni Sessanta nella lotta politica ed intellettuale contro la politica di potenza americana, getta un’inquietante luce sulla strategia imperialista e militarista condotta dagli Stati Uniti negli ultimi cinquant’anni, che coinvolge l’intero pianeta, dall’America latina al Medioriente, dall’Europa meridionale all’Indocina.

Sin dalla guerra in Vietnam, una vera e propria “invasione del Vietnam del Sud”,  gli Stati Uniti hanno condotto una grande guerra, perpetua e universale, animata da un’unica e sola logica, quella del profitto. Questa tragica e interminabile guerra si declina diversamente a seconda del contesto geopolitico e storico, adduce cause sempre diverse, ma tenendo presente l’obiettivo, l’unico e solo che anima la condotta politica di questa superpotenza: sopprimere ogni tentativo di indipendenza politica ed economica, di emancipazione democratica, disseminando in tutto il mondo governi fantoccio tenuti da élite compiacenti. Eliminare ogni forma di opposizione al regime economico statunitense è stato il punto fermo della politica estera americana, sia dei presidenti democratici che di quelli repubblicani. Tanto Kennedy, quanto Reagan, tanto Clinton quanto Bush sono responsabili delle atrocità commesse in tutto il mondo da una politica serva degli interessi delle grandi corporations, sono responsabili degli squilibri politici, economici e sociali che continuano a persistere tra il mondo Occidentale e il Terzo Mondo. Sono responsabili della disuguaglianza e dell’orrore disseminato ovunque.

Se le interviste degli anni Settanta e Ottanta ci consegnano un quadro storico  complesso e critico, che getta luce sul nostro recente passato – è molto interessante l’analisi di Chomsky sul periodo della “distensione” durante la Guerra Fredda, in cui USA e URSS stabiliscono un accordo di non interferenza nelle reciproche zone d’influenza – quelle degli ultimi vent’anni, dalla caduta del muro di Berlino in poi, descrivono il progressivo imporsi del modello economico e sociale americano in tutto l’Occidente, l’affinarsi del sistema di manipolazione mediatica, necessaria a legittimare il conflitto tra “mondo industrializzato e paesi detentori delle risorse energetiche”, il retrocedere dell’ex Unione Sovietica a paese del terzo mondo.

Gli anni Novanta sono gli “anni felici”, sul modello degli anni Venti: il rinnovato e rinvigorito liberismo americano attua una politica di potenza sempre più aggressiva. Il primo passo per rafforzare il potere delle grandi corporazioni è procedere con lo “smantellamento del contratto sociale”. Il potere politico, democratico e repubblicano, procede in questi anni a ridurre i diritti dei lavoratori (Chomsky ci dice che negli anni Novanta i lavoratori americani non avevano ferie pagate ed erano sottoposti ad orari di lavoro più pesanti rispetto ai lavoratori europei), ad abbattere lo stato sociale, negando il diritto alla sanità e all’istruzione. Le condizioni di povertà negli Stati Uniti sono paragonabili a quelle del Terzo Mondo. Chomsky parla di crisi degli anni Novanta: se consideriamo come parametro economico il PIL, allora dobbiamo ammettere che in quegli anni l’economia statunitense era in crescita. Ma ci sono altri parametri di cui le agenzie statistiche non tengono conto: la mortalità infantile, il costo del lavoro, l’abuso e la violenza sui minori; l’ultima analisi di questo tipo fu fatta
negli USA nel 1930.  Dichiara il filosofo in un’intervista del 2000:

…gli Stati Uniti non sono così prosperi come si vorrebbe far credere, anzi attraversano una vera e propria recessione. Basta guardare agli indici relativi alla mortalità infantile e alla povertà dei bambini al di sotto dei cinque anni: c’è da vergognarsi. Non si possono dimenticare poi i due milioni di cittadini in carcere – di cui il 90% afroamericani e latini -, o i 44 milioni di americani privi oggi di assistenza sanitaria – nel 1996 ne erano privi 38 milioni. Dal 1975, il prodotto nazionale lordo ha continuato a crescere, ma contemporaneamente c’è stato un collasso totale delle infrastrutture del sistema sociale. E qui la discesa continua.

L’imperialismo militarista si fonda su un apparato ideologico e repressivo che ha come scopo quello di  legittimare il modello di ingiustizia attraverso la manipolazione mediatica e l’imposizione con la forza di politiche che altrimenti sarebbero tollerate con molta difficoltà da parte dell’opinione pubblica. La propaganda americana crea dei mostri, dei nemici, dei capri espiatori. In questo modo gli Stati Uniti assumono il ruolo dei “buoni”, dei protettori dei diritti umani, dei custodi della democrazia, e allo stesso tempo immobilizzano l’opinione pubblica nella paura del mostro, del nemico, impedendo il sorgere di movimenti di protesta.
Dalla paura al “terrore”, dal “terrore” al “terrorismo”: una parola che Chomsky non esita a definire “inventata”. I governi americani hanno inventato la parola terrorismo per legittimare la propria politica di potenza: terroristi sono i cubani, terrorista è Saddam nel momento in cui attua politiche che non sono gradite agli USA. Perché Saddam è un terrorista se colpisce alleati degli Stati Uniti e non è un terrorista nel momento in cui non lede gli interessi americani con le sue atrocità?
Terrorismo, fondamentalismo islamico, esportazione della democrazia, tutela dei diritti umani sono concetti che l’ideologia americana utilizza per rendere tollerabile all’opinione pubblica il suo imperialismo militarista, alternando la persuasione, l’insistenza sui valori e sull’identità occidentale, al terrore e alla paura. Chomsky non parla di una strategia del terrore, ma sicuramente siamo di fronte ad una strategia mediatica del terrore.
Terrore che non esita a riversarsi anche sulla politica interna: la discriminazione razziale, l’individuazione di capri espiatori è fondamentale per abbattere ogni diversità, all’interno e all’esterno del confine statunitense. Nel terrore della criminalità, del narcotraffico, che l’apparato ideologico fomenta quotidianamente attraverso l’informazione, risiede la legittimazione di una politica repressiva nei confronti di alcune etnie, come quella africana e latina. Al momento dell’elezione di Clinton, e poi di Bush, una grossa fetta di questa popolazione sarà in carcere, sarà privata del diritto di voto. Questo, dichiara Chomsky, è forse più scandaloso della vergognosa vicenda delle schede elettorali di molti afroamericani annullate durante le elezioni di Bush figlio.

Terrorismo e fondamentalismo sono sicuramente i concetti più attuali, utilizzati dalla propaganda di tutti i governi occidentali. Chomsky ci spiega in maniera molto chiara che il problema non è certo il fondamentalismo islamico, dato che uno degli alleati dell’Occidente contro suddetto fondamentalismo è l’Arabia Saudita, un paese fondamentalista. Il problema è l’indipendenza dei popoli dal modello americano, che è il modello del Capitale, è l’indipendenza, la “devianza” di alcuni gruppi etnici e sociali rispetto al prototipo dell’uomo bianco consumatore e lavoratore. Per abbattere ogni differenza, che costituisce un pericolo per la stabilità del sistema, fondato sull’omologazione, sull’abbattimento di ogni forma di individualità e specificità, il potere utilizza ogni mezzo possibile. Con le bombe e col “Drive In” si è uccisa ogni alternativa. Chomsky ci mette in guardia. Il suo impegno costituisce un esempio di lotta ma soprattutto di esercizio del pensiero critico e libero.

In altre interviste Chomsky ha dichiarato che l’esercizio di un pensiero critico richiede semplicemente un po’ di apertura mentale e una buona dose di scetticismo. Non richiede particolari competenze, né preparazione politica o filosofica. Il trucco sta nel cogliere argutamente le discrepanze tra la narrazione ideologica e i fatti così come sono. L’intento del filosofo è quello di criticare l’intelligencija che si arroga il monopolio delle interpretazioni degli eventi politici e dei fenomeni sociali, mettendo queste interpretazioni al servizio di interessi particolari.
Su questo punto non si può che essere d’accordo con Chomsky. Tuttavia, bisogna tener conto della complessità del sistema mediatico d’informazione e di propaganda delle società occidentali. È un sistema pluralistico, articolato in modo complesso, in cui è davvero difficile stabilire quali siano i fatti ed elaborare un giudizio sulla base di dati oggettivi. È possibile elaborare un giudizio critico sulla base dei dati di cui siamo forniti, essendo questi narrati sempre sulla base di un interesse particolare?
A mio avviso, l’esercizio delle proprie facoltà critiche non richiede particolare erudizione, e su questo sono pienamente d’accordo con Chomsky. Ma ritengo che la critica sia frutto di una scelta politica precisa, che ci spinge a non accontentarci delle informazioni che impacchettano appositamente per noi poveri uomini-massa, che ci invita a dubitare, e dunque a cercare, e forse, a comprendere. Una scelta che precede l’analisi dei fatti. Una scelta che lo stesso Noam Chomsky ha compiuto.


martedì 15 dicembre 2015

I demonî, Dostoevskij

E c’era lì a pascolare pel monte un gran branco di porci; e lo scongiurarono a permetter loro di entrare in quelli. Ed egli permise. Allora i demoni, usciti da quell’uomo, entrarono nei porci e con grande impeto la mandria si precipitò nel lago e ivi affogò. Appena videro quanto era accaduto, i mandriani fuggirono a portare la notizia in città e per le campagne. E la gente uscì a vedere l’accaduto, e, venuti a Gesù, trovarono l’uomo, dal quale erano usciti i demoni, seduto ai piedi di Gesù, rivestito, in sé, e s’impaurirono. E quelli che avevano vista la cosa, raccontarono anche loro come l’ossesso era stato liberato.
VANGELO DI SAN LUCA, Cap. VIII, 32-37

La citazione che costituisce l’incipit del romanzo racchiude ermeticamente il senso dell’intera vicenda narrata da Dostoevskij, ispirata ai movimenti anarchici russi di metà Ottocento e, in particolare, all’anarchismo di Nečaev.
La vicenda si svolge in una provincia russa nella quale una “cinquina” di anarchici, capeggiata da Piotr Stepanovic Verchovenski si insinua, dapprima pacificamente, nella politica della comunità, accattivandosi il ceto dirigente, in particolare la moglie del governatore, Elizaveta Prokofevna, con un piano machiavellico scrupolosamente architettato: sabotare le iniziative politiche e sociali della classe dominante, insidiare i rapporti personali tra i membri del ceto dirigente, con l’intento di creare scompiglio, disorientamento. Fare abbassare la guardia ai custodi dell’ordine pubblico, in modo da creare situazioni di disordine violento e porre le condizioni per un abbattimento totale delle istituzioni del potere. Il tono del narratore segue un drammatico crescendo: la sedizione strisciante, nascosta, mascherata, rete che si avvinghia attorno ai protagonisti della vicenda, fino a stringerli in una morsa che non risparmierà nessuno, né le vittime, né i carnefici, distinzione che nella narrazione si fa sempre più sottile; e poi l’esplosione finale, l’incendio della provincia, culmine catartico di un piano che sembra non avere né autori né responsabili, in cui l’orrore e la violenza si distribuiscono ambiguamente tra i protagonisti della vicenda.
Tralascerò in questa sede l’esposizione più dettagliata delle vicende che intessono la trama del racconto, e mio malgrado, dovrò anche tralasciare una descrizione dettagliata della psicologia dei singoli personaggi, che pure meriterebbe una profonda riflessione. Ciò su cui intendo soffermarmi principalmente è il percorso dell’Idea, a mio avviso autentica protagonista del romanzo: dapprima parla con voce flebile alla coscienza umana, una voce talmente debole che richiede concentrazione e attenzione per poter essere udita, che va isolata da tutte le altri voci della coscienza. L’Idea si insinua gradualmente, dolce e inarrestabile, come un tarlo che comincia a scavare un tunnel profondo nei nostri pensieri, creando labirinti che conducono sempre allo stesso punto, all’Idea. Ogni concetto dalla mente elaborato, ogni dubbio, ogni domanda costituiscono per l’Idea il  nutrimento che le permette di crescere, una sorta di massa tumorale che occupa e divora tutta quanta la materia cerebrale. È il momento della possessione demoniaca: l’Idea vuole uscire da sé, diventare azione, realtà. E allora ci ordina di agire in suo nome: l’Idea guida tutte le nostre azioni, è fonte assoluta di legittimazione della nostra condotta morale. In nome dell’Idea si può ingannare, tradire, raggirare l’altro. Solo in nome dell’Idea si può uccidere. Il nesso istituito da Dostoevskij tra un’idea che agisce ossessivamente nel suo portatore e il delitto che il soggetto si ritiene legittimato a compiere, è un motivo ricorrente nella narrazione dell’autore: penso a Delitto e castigo, in cui il protagonista vive un tormento che lo affligge sia prima di uccidere la vecchia usuraia, sia dopo. Il protagonista teorizza che il delitto sia legittimo nel caso in cui si voglia combattere un’ingiustizia, e in nome di questa idea che si impossessa di lui in maniera sempre più prepotente, egli uccide, salvo poi espiare con la malattia, con la sofferenza inconsolabile la sua colpa. Fino alla catarsi, quando “alla dialettica si sostituisce l’amore”. Penso ai Fratelli Karamazov: Ivan Karamazov teorizza che “se Dio non esiste, tutto è concesso”. L’Idea che diventa realtà morale e intellettuale in Ivan, diventa realtà fisica in Smerdiakov, che ammazzerà il loro spregevole padre. Questa dimensione del “demoniaco” è una costante nei romanzi di Dostoevskij, ed è forse il punto focale in cui convergono le varie prospettive dalle quali l’autore guarda alla natura umana. Ma la particolarità de I demonî sta nella natura collettiva dell’ossessione: dal singolo, la possessione demoniaca si trasferisce ai “porci”, coinvolge una collettività.

Se non ho ancora precisato di quale idea si tratti non è per dimenticanza, ma  perché ritengo che la natura dell’idea non sia fondamentale nella descrizione di un’ossessione o di una possessione demoniaca. Si è ossessionati, si è “posseduti” nel momento in cui un’unica e sola idea diventa l’unica fonte del nostro agire, permea in tutti i molteplici e contraddittori aspetti della nostra psiche, abbatte ogni luogo di resistenza. Anche un’idea come quella di Ivan Karamazov, che sembra rimandare ad un relativismo che molti definirebbero spregevole e moralmente deprecabile, è un’idea che ha tutti i caratteri dell’assolutezza: Ivan uccide idealmente suo padre non perché è un relativista, ma proprio in nome dell’assolutezza imperativa della sua idea. È come se Dostoevskij ci dicesse che il mondo delle idee non è in alcun modo conciliabile con la storia e, nel momento in cui si cerca di far diventare realtà quell’Idea, l’individuo (o la collettività) si ritrova stretto in una morsa, in una contraddizione che è impossibile sanare: se si vuole realizzare un’idea nella sua purezza, così come essa è nella nostra mente, si dovrà ammazzare, annientare quella realtà a cui l’idea dovrebbe dar forma. L’idea sarà sempre in qualche modo tradita: nel momento in cui diventa “fatto”, l’idea perde la sua assolutezza, la sua purezza e perfezione, per divenire qualcosa di misero e aberrante. E il portatore dell’idea, che vede tutto ciò in cui ha creduto sporcato e umiliato, non può far altro che pentirsi ed espiare la sua colpa. Colui che invece vuole salvare la purezza dell’Idea ha un solo modo per metterla in pratica: il suicidio.
L’idea demoniaca dei maiali del romanzo è la Rivoluzione. Il rovesciamento totale e sistematico delle istituzioni del potere, l’abbattimento della differenza di classe, la libertà assoluta dell’uomo. Il piano di Piotr Stepanovic, uno dei capi di un’organizzazione anarchica operante (a suo dire) in tutta la Russia, organizzata in piccoli gruppi da cinque, è semplice e geniale: entrare nelle grazie della moglie del governatore, dalle idee moderatamente liberali, e sabotare la sua grande festa di beneficenza organizzata per le governanti indigenti, con letture di intellettuali di spicco e gran ballo finale. La festa è preceduta da uno sciopero di operai, succeduta da un incendio e sabotata da ubriaconi e personaggi di dubbia reputazione che si intrufolano nella festa creando scompiglio. In vista del suo progetto, Piotr Stepanovic ricorre a tutti gli inganni e le prepotenze di cui è capace, esercita una tirannia sui suoi compagni tale da spingerli ad assassinare un loro ex compagno, Sciatov, con l’accusa, assai poco fondata, che egli avrebbe prima o poi denunciato. Piotr Stepanovic è meschino, infido, vile, disposto a rovesciare “l’assoluta libertà in assoluta schiavitù”, come ebbe a dire un suo compagno di lotta. L’aspetto forse più interessante di questo personaggio è che, pur essendo l’artefice di tutto il piano, l’intelligente demiurgo che imprime l’idea nella materia, sembra essere il meno “indemoniato”. La sua spregevole condotta sembra più legata a ragioni personali, soggettive (il suo rapporto con il padre, che reputa indegno e vile, la sua antipatia personale per Sciatov, verso cui nutre vecchi rancori che nulla hanno a che fare con la rivoluzione): Piotr non è uno di quei porci che si getterà nel lago, ma fuggirà con destrezza una volta portato a termine il suo progetto.
I veri posseduti si ammazzeranno: Kirillov e Nikolai Stavroghin. Il primo per affermare la sua assoluta libertà: il suicidio è l’esito nichilistico di una scelta razionale, senza alcuna motivazione estranea alla propria libertà. Così Kirillov motiva il suo suicidio, annunciato come proposito sin dall’inizio del romanzo:

La vita è dolore, la vita è paura, e l’uomo è infelice. Ora tutto è dolore e paura: l’uomo ama la vita perché ama il dolore e la paura. Lo hanno fatto così. La vita viene concessa a prezzo di dolore e paura, e qui sta tutto l’inganno. Ora l’uomo non è ancora quell’uomo che dovrà essere. Vi sarà l’uomo nuovo, felice e superbo. Quello al quale sarà indifferente vivere, quello sarà l’uomo nuovo! Chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. E l’altro Dio non vi sarà più.

La descrizione dello stato d’animo di Stavroghin nel momento in cui decide di impiccarsi, è decisamente diversa. Il narratore descrive il tormento che trapela dalla lettera scritta da Stavroghin prima di morire:

Questo documento, secondo me, è opera di un uomo in istato morboso, dettata dal demone che si era impadronito di lui. Pare il dimenarsi di un malato che soffra di un dolore acuto, e si agiti nel letto col desiderio di trovare una positura che gli allevii almeno per un attimo lo spasimo. Colui, naturalmente, ha altro per la testa che la bellezza o la ragionevolezza della posizione. L’idea fondamentale del documento è la terribile, non simulata esigenza del castigo, l’esigenza della croce, del pubblico supplizio. E tuttavia questa esigenza della croce si fa sentire in un uomo che non crede nella croce, e già questo solo costituisce un’ “idea”, come disse un giorno Stepan Trofimovic, del resto, a un altro proposito. Tutto il documento è nello stesso tempo qualcosa di tempestoso e disperato, sebbene scritto, evidentemente, con un altro scopo.

L’idea che si impossessa di entrambi questi porci è quella del nichilismo, della distruzione totale liberatrice, che si declina in due prassi differenti, entrambe autodistruttive: quella suicida di Kirillov, razionale e filosofica, e quella dissoluta di Stavroghin, che con la sua condotta immorale vuole distruggere i dogmi del suo tempo, primo fra tutti il buon senso e la morigeratezza. Entrambi realizzano e allo stesso tempo tradiscono e mortificano il loro nichilismo, e allora la morte, come unico mezzo di liberazione dalla contraddizione.

Le passioni, le ossessioni che tormentano i personaggi di questo romanzo culminano in un grande incendio, nella distruzione totale di sé, degli altri. Poi il nulla, la cui dolce e pesante quiete graverà sulle future generazioni. La tragedia appassionata del cammino dell’Idea distrugge tutto ciò che incontra lungo la via, fino alla sua stessa dissoluzione.

domenica 13 dicembre 2015

"La metamorfosi" di Franz Kafka



«Che cosa mi è successo?»


Una mattina il risveglio di Gregor Samsa, un commesso viaggiatore prossimo ad un viaggio d'affari, si colora di paradossale. L'addome dell'uomo si è trasformato in una pancia convessa e marrone, la schiena è una corazza dura, le gambe hanno lasciato il posto a delle zampette esili e tremolanti. Gregor si è trasformato in uno scarafaggio. Alla scoperta dell'accaduto, i familiari, visibilmente disgustati, non assumono un atteggiamento di comprensione o di accettazione dell'imprevedibile, ma di assoluto sdegno. La metamorfosi appare, ai loro occhi, come la colpa più spregevole dell'uomo (come se l'accaduto gli fosse in qualche modo appuntabile) e cominciano ad allontanarsene sempre di più. Gregor, il cui lavoro fino a quel momento era stato l'unica fonte di sostentamento per la famiglia, diventa l'emarginato. Nella logica borghese, la libertà non si configura come il "diritto alla disuguaglianza” (come scriveva Nikolaj Berdjaev), ma come la sosta in quel territorio che il senso comune chiama normalità. Il racconto lungo, scritto nel 1912 ma pubblicato tre anni più tardi, è allora una metafora dell'ipocrisia borghese: i rapporti familiari, scintillanti di perfezione, si sgretolano. A sostenerli non è l'imprescindibile legame affettivo da cui sembrano concepiti: la famiglia non è un'isola felice. È un luogo di code di paglia e di sensi di colpa. Il racconto della metamorfosi è scevro di qualsiasi spiegazione, di qualsiasi esplicita eziologia. Non è una storia di rivalsa: Gregor non tenterà mai di far valere le proprie ragioni né di lasciare la casa in cui provoca null'altro che sdegno. Si lascerà andare fino ad una morte solitaria, che si configurerà come la metafora nella metafora: la morte come accettazione dell'emarginazione, come comprensione del difetto da parte del difettoso. D'altronde i sentimenti di Gregor (di cui il lettore legge qua e là delle brevi pennellate), non sono taciuti:

«Ogni volta che i discorso cadeva su questa necessità quotidiana di denaro, Gregor si allontanava dall’uscio e, lasciatosi andare sul sofà di cuoio lì accanto, si sentiva avvampare di vergogna e di tristezza.»

Solo alla morte dell'emarginato, la normalità trionfa.

Ma chi è Gregor per Kafka? Di certo non un antieroe, ma nemmeno un eroe. Kafka non lo nasconde. I suoi personaggi sono borghesi inariditi, gente il cui unico scopo è quello di potersi permettere uno stile di vita agiato. Non c'è sentimento o parentela che tenga: il denaro e l'onore sono i sovrani indiscussi di qualsiasi rapporto interpersonale. Se Gregor non riesce più a mantenere la propria famiglia è un parassita, un ingrato. Egli è doppiamente imprigionato: dal nuovo corpo, un involucro estraneo; dal rifiuto della società, giudice tendenzioso della sua diversità. È un diverso, ma la normalità lo attrae: quando la sorella suona il violino davanti ai pensionanti, il suo essere animale/diverso/anormale/emarginato si annulla e riaffiora l'umanità/la normalità/l'essere parte di.

«Gregor venne avanti un altro poco, tenendo il capo rasente al suolo, sforzandosi di incontrare quegli occhi. Dunque era proprio una bestia se la musica a tal punto lo affascinava? Gli pareva di veder disegnarsi davanti a lui la via verso un cibo desiderato quanto sconosciuto.»

Egli rimane fermo a guardare la società che lo deride, non mette in pratica una rottura. L'emarginazione, in Kafka, non è il preludio di una resistenza, tuttalpiù l'incipit di una bandiera bianca. Ecco la morte del protagonista, ecco il sollievo dei parenti, ecco il "Ben ti sta!" del lettore. Gregor non disprezza la società che lo emargina e il lettore non può far altro che disprezzarlo a sua volta per la sua ignavia.