Su di noi

venerdì 12 dicembre 2014

La cultura popolare e i neolalici imbecilli

In un film-saggio di Giorgio Baratta, Dario Fo racconta di Gramsci critico teatrale. Lo fa con la sua solita maniera affezionata e affabulatrice, soffermandosi su quanto di più originale contraddistingueva l’attività critica di Gramsci: il divertirsi assistendo ad uno spettacolo comico, ad esempio. Dario Fo fa notare come non sia affatto banale: i critici, spiega alla luce della sua vasta esperienza, tendenzialmente non riescono a godersi gli spettacoli teatrali perché non sanno dimenticare di essere critici, e finiscono col risultare perfino infastiditi che attorno a loro ci sia un pubblico che si emoziona e diverte mentre loro mantengono il contegno e il distacco di chi sta praticando la propria professione. Antonio Gramsci non era un critico di tal fatta: non solo godeva gli spettacoli cui assisteva, fruitore-critico tra i semplici fruitori, ma dedicava anche una precipua attenzione alle reazioni del pubblico. Le sue osservazioni benevole, il suo coinvolgimento tutt’altro che snobistico rivelano delle coordinate importanti del suo pensiero-prassi e del suo atteggiamento nei confronti del popolo non intellettuale.
Soffermiamoci sull'immagine offerta da Dario Fo, quella di Gramsci assiso tra gli spettatori paganti per assistere ad uno spettacolo di Pirandello o di Ibsen, per inquadrare Gramsci in relazione alla cultura popolare e allo stesso popolo fruitore di essa.
In una lettera a Tania, Gramsci «si vanta di saper “razzolare” anche nei “letamai” (o di riuscire a “cavar sangue anche da una rapa”), cioè di possedere “una capacità abbastanza felice di trovare un qualche lato interessante anche nella più bassa produzione intellettuale”».
Risultato della frustrazione della reclusione carceraria in cui anche le letture più insulse facilitano lo scorrere del tempo; anche della carenza di buoni libri e di un piano di studio metodico e sistematico (di cui Gramsci si lamenta accoratamente in diversi luoghi, prima di iniziare la stesura dei Quaderni); ma la faccenda non si esaurisce in queste contingenze. Nella sua produzione carceraria, Gramsci si sofferma attentamente sulla cultura e sulla letteratura popolare, di cui intende mettere a fuoco le caratteristiche ma soprattutto le esigenze di pubblico che ne provocano l’insorgenza. Questo proposito è manifesto già dal primo Quaderno, nel quale Antonio innanzitutto annota gli argomenti di studio cui vorrà dedicarsi:

«4) La letteratura popolare dei “romanzi d’appendice” e le ragioni della sua persistente fortuna. […]
7) Il concetto di folklore».

Ho riportato anche il settimo punto dell’elenco, che può apparire argomento pur di poco divergente, attenendomi alle considerazioni di Gramsci stesso, dal momento che il suo primo riferimento alla cultura popolare la considera proprio nel senso di «folklore», ponendola in contrasto con la “cultura moderna”, oltre che con quella “alta”. Successivamente, nel Quaderno 14, Gramsci precisa che folklore e cultura popolare non sono esattamente sinonimi, ma il primo coincide con la seconda nel suo «grado infimo». La cultura popolare in senso ampio, come insieme che includa il sottoinsieme “folklore”, sarà piuttosto il mondo del “senso comune”, con la sua infarinatura di ogni argomento, secondo le sedimentazioni lasciate dalle scienze come dalla filosofia nella cultura orale, talvolta deformante. È una sorta di serbatoio di potenzialità di alternativa alla cultura dominante, e che può sfociare in una direzione consapevole, sfuggendo al mero sovversivismo, solo grazie all’intervento mediatore ed educatore degli intellettuali.
Per quanto riguarda questa funzione “educativa”, non si deve, nel risalire alla concezione gramsciana di “cultura popolare”, cadere nell’inganno di ritenerla coincidente con un tipo di letteratura meramente “pedagogica”, per ragioni per lo più contingenti: quando Gramsci scrive a questo riguardo, ha presenti le posizioni di alcuni suoi contemporanei, dalle quali ritiene giustamente di doversi dissociare. È il caso del
Quaderno 8, nel quale Gramsci si sofferma a considerare un libro della Brenna intitolato La letteratura educativa popolare italiana nel secolo XIX e la relativa recensione della professoressa Formiggini-Santamaria. La seconda rimprovera alla prima di non aver precisato quali siano i «libri adatti […] alla povera mentalità di lavoratori del braccio».
E se la Brenna pecca di snobismo oltre che di imprecisione, anche la Formiggini-Santamaria è accusata da Gramsci dal medesimo peccato:

«La Formiggini insiste sulla parola “educativa” ma non indica il contenuto che dovrebbe avere un tale concetto, eppure la quistione è tutta qui. La “tendenziosità” della letteratura popolare [educativa] d’intenzione è così insipida e falsa, risponde così poco agli interessi mentali del popolo che l’impopolarità è la sanzione giusta».

Gramsci dopo anni di detenzione.
Una pedagogia di tipo paternalistico non avrà come esito o come ispirazione l’emancipazione della massa-operaia-lettrice, quanto piuttosto tenderà a conseguire il «mantenimento della sua condizione di inferiorità». Pertanto, finisce con l’essere non solo poco utile, quanto perfino dannosa e offensiva. Alle preoccupazioni di Gramsci che la letteratura popolare non sia centellinata dall’alto tenendo conto di somministrare ai lettori «arretrati» opere adatte alle loro deficienze culturali e linguistiche, quindi badando che siano «di stile non aulico e ricercato» e che rientrino tra quelle che «prendono ad argomento le lievi vicende e la serena natura», Ascanio Celestini risponderebbe con ironia: «Il popolo è un bambino!».
Eppure, la letteratura popolare non è neppure quella elaborata dagli operai per essere letta dagli operai: le posizioni proletkult’iste, non ancora mature neppure nella loro patria sovietica, non trovano alcuna corrispondenza nel pensiero gramsciano.
Auspicare una cultura del genere sarebbe stato poco degno di un pensatore fine come Gramsci, visti i suoi caratteri evidentemente settari e fanatici, che arrivano a rinnegare l’intera produzione culturale e artistica “borghese” dei secoli precedenti, con giustificazioni a loro modo ideologicamente coerenti eppure risultati culturali devastanti; la storia, del resto, ha dimostrato quanto il proletkult’ fosse una pensata fallimentare.
L’ultima accezione di “cultura popolare”, quella che Gramsci riconosce e sulla quale si sofferma con attenzione, fa capo alla «letteratura mercantile» (anche se non si esaurisce in essa, che ne è una sezione). Si tratta di quella letteratura cui è conferito un valore non intrinseco (inerente alla sfera dell’arte) ma estrinseco, con riferimento alla sua vendibilità e alla sua possibilità di diffusione. Questo tipo di letteratura, scrive Gramsci, non va trascurato e ignorato: al contrario, esso fornisce dei dati estremamente interessanti su quali siano i bisogni letterari e culturali della popolazione, ed è propedeutico porsi questo tipo di domande per poter delineare una sorta di catalogo dei gusti popolari (cosa che Gramsci farà soffermandosi sul poliziesco, sul sentimentale, sul romanzo di puro intrigo, quello d’avventure eccetera). Non è questo un interesse
puramente tabellario e libresco, ma uno snodo molto interessante da cui possono dipanarsi differenti percorsi teorici, ad esempio: quali sono i bisogni popolari in fatto di letteratura? Cosa il popolo desidera leggere? In risposta a questo quesito, Gramsci definisce Il Conte di Montecristo come «il più “oppiaceo” dei romanzi popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subito un’ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla “punizione” da infliggere loro?».
Secondo quesito, legato al primo: perché in Italia non è possibile che si dia letteratura popolare e artistica (questo era vero negli anni ’20 e forse lo è ancora oggi, se Fabio Volo non si schioda per una settimana dal podio dei best-seller)?
Una riposta a questo importante quesito risiede nel pregiudizio espresso da Luigi Volpicelli per cui il popolo avrebbe «amato sempre l’arte più per quello che non è arte che per ciò che è essenziale all’arte», essendo i porci incapaci di cogliere la bellezza delle perle. Gramsci dà tutt’altra spiegazione e se uno dei due poli è colpevole della frattura intellettuali-massa, non è il secondo. Scrive nel Quaderno che quella di Volpicelli è:
«osservazione senza costrutto né base: è certo che il popolo vuole un’arte “storica” (se non si vuole impiegare la parola “sociale”), cioè vuol un’arte espressa in termini di cultura “comprensibili”, cioè universali, o “obbiettivi”, o “storici” o “sociali” che è la stessa cosa. non vuole “neolalismi” artistici, specialmente se il “neolalico” è anche un imbecille».
Gli intellettuali-artisti capaci di espressioni universali sono dunque quelli propriamente «nazionali-popolari», in totale contrasto con quelli riconducibili all’«”individualismo” artistico espressivo antistorico (o anti-sociale, o anti-nazionalepopolare)» di tipo crociano.
L’insegnamento di Gramsci è stato ben recepito da Ettore Scola, dunque, se questa caratteristica di “universalità” e “comprensibilità” fa il vero intellettuale, quello utile al popolo: Nicola (interpretato da Stefano Satta Flores) di C’eravamo tanto amati è un intellettuale e in quanto tale è «più su, più giù, più oltre» della classe operaia. Così “più oltre” che neppure gli amici riescono a tenergli dietro, figurarsi il “volgo ignorante”: nel capolavoro di Scola, Nicola è senza dubbio l’intellettuale incapace di farsi capire e pertanto destinato, come Cassandra, a rimanere inascoltato, per quanto possa avere ragione. Non è casuale, credo, che Nicola conosca la risposta esatta e difficilissima ad un quesito di Lascia o raddoppia, una domanda sul dietro-le-quinte di Ladri di biciclette, ma nonostante ciò non riesca a vincere (la risposta gli viene riconosciuta come sbagliata, nonostante anni dopo lo stesso De Sica la sostenga pubblicamente) e venga perfino sbeffeggiato.
Non basta, dunque, che l’intellettuale sappia: è assolutamente indispensabile che sappia anche trasmettere quel sapere, quel metodo, quei contenuti. È proprio ad un difetto degli intellettuali italiani, a questa loro incapacità, che Gramsci imputa la mancanza di una letteratura popolare di qualità, o anche solo “popolare” in senso stretto (i libri più diffusi erano infatti traduzione di opere estere). Le carenze di una cultura popolare sono «conseguenze di quella secolare divisione tra intellettuali e classi popolari che, agli occhi di G[ramsci], aveva impedito e continuava e impedire la formazione della nazione stessa oltre che la nascita di una cultura capace di esprimere i bisogni e le aspirazioni culturali di tutte le componenti della società italiana».
Questo rapporto complicato tra gli intellettuali e il “popolo”, che nella migliore delle ipotesi instaura un atteggiamento dei primi verso il secondo di «condiscendente benevolenza, non medesimezza umana», non fa che sancire definitivamente quella cesura tra loro.

Fotogramma del film C'eravamo tanto amati di Ettore Scola.
Nicola  (Stefano Satta Flores) sta rispondendo esattamente
alla domanda di Mike Bongiorno (nei panni di se stesso), senza
tuttavia che il suo trionfo sia riconosciuto.

lunedì 24 novembre 2014

"A un jour" di Simone Weil

Il poeta Jean Tortel, conosciuto durante la collaborazione ai Cahiers du Sud nel 1940, dopo l'occupazione tedeca, ha scritto di Simone Weil: "Credo che, prima di tutto, desiderasse essere poeta. Sono certo che avrebbe sacrificato la sua opera per le poche poesie che ha scritto".
Nonostante questa vocazione (Weil avrebbe detto dharma, secondo la terminologia acquisita dall'indù che amava studiare negli antichi testi sanscriti), della "vergine rossa" possediamo poche produzioni poetiche. Negli ultimi anni della sua vita apprezzava gli gnostici e i metafisici, Theophile e George Herbert. Giudicava la di lui poesia, Love, la più bella mai scritta. In continuità a questo clima di trascendenza e misticismo che amava ricreare nei suoi studi (ormai morta e sepolta la breve stagione rivoluzionaria, durante la quale disegnava falci e martelli ai bordi delle pagine e stringeva calorosamente la mano a chi si dicesse ateo), compose in due diverse stesure quello che riteneva un piccolo capolavoro: il poemetto A un jour (A un giorno nelle traduzioni italiane).
Il lavoro di cui era stata precedentemente più fiera era il Prométhée, altro componimento che in seguito avrebbe giudicato invece di "gran lunga inferiore" ad A un jour. Lo aveva inviato a Paul Valéry, il quale le aveva mandato una lettera di risposta piena di elogi.
Segue una prima stesura del secondo poemetto, anch'esso spedito a Valéry nel 1938, senza questa volta ottenere alcun riscontro. A un jour, così, rimase a lungo nel mucchio di manoscritti che affollava la camera di Simone Weil al numero 3 di via Auguste Comte.
Weil non aveva intenzione di abbandonare Parigi poco prima che essa venisse raggiunta dall'avanzata tedesca: aveva ferma intenzione di restare per due ragioni. La prima, era quella di cui andava vantandosi continuamente con chiunque le prestasse attenzione: condividere la sorte dei più sventurati (anche se, per conseguire quello che Simone Pétrement giudica un atto della più pura generosità e della più profonda negazione di sè, Weil incorreva spesso nell'inconveniente di imporre agli altri le proprie insistenti pretese, a volte veri e propri capricci, e con le complicazioni che ne conseguivano) e partecipare direttamente alla guerra, visto che un incubo è tale per lo più quando è solo immaginato e ben meno spaventoso quando è vissuto.
Nonostante questi fieri e ostinati propositi, il 13 giugno del 1940 Weil e i suoi genitori escono di casa, vengono a sapere che Parigi è appena stata dichiarata città aperta e che da essa sta per partire l'ultimo treno; decidono allora su due piedi di partire, senza bagagli né molto denaro. Scendono alla prossima fermata di Nevers e da lì vengono trasportati in auto fino a Vichy. L'indomani Parigi viene occupata.
Lontana da casa e dai suoi manoscritti, Weil riscrive A un jour a memoria, ottenendo un componimento che giudica ancora migliore dell'originale. Ne fa cinque o sei copie e le invia per lettera ad amici, conoscenti e ad un'allieva con l'incarico di farla pubblicare con qualunque mezzo su qualunque rivista di rilievo, anche in forma anonima (visto il clima antisemita che ormai domina l'Europa): sa infatti che l'opera portata a termine è del tutto svincolata dal suo autore e poi non ha a cuore la fama o la gloria di essere l'autrice di quel che giudica un ottimo poemetto. Quel che le sta a cuore è semplicemente che sia letto con urgenza, perché è di tale importanza e bellezza che sarebbe un peccato privarne il mondo.
Il poemetto, lungo alcune pagine, snocciola quelle che erano le principali convinzioni religiose e metafisiche che Simone Weil nutriva all'epoca, nei suoi ultimi anni di vita, dopo aver stretto amicizia con padre Perrin, dopo essersi appassionata in modo (direi) morboso ai canti gregoriani, dopo aver deciso di vivere asceticamente (per esempio dormendo a terra oppure chiedendo ad un amico, durante una vacanza, di ficcarle spilli sotto le unghie) e dopo essere diventata anoressica (legittimando la cosa con l'affermazione che chiunque mangiasse, in tempo di guerra, praticamente privava di quel cibo tutti gli altri esseri umani nelle medesime condizioni).
Durante l'elaborazione di piani come paracadutare le infermiere in prima linea per soccorrere i moribondi anche a costo di morire al loro posto e nel tentativo di sfuggire alla persecuzione antiebraica dichiarando di essere, sì, in effetti, di origine ebraica, ma di non avere nulla a che fare con quel popolo alla cui tradizione di dichiarava totalmente estranea, Weil trova il tempo per deliziarci con questo poemetto misticheggiante.

«Perchè ferire con la tua aurora
gli occhi dei vinti, giorno morto-nato?
Son stanchi di dover vedere ancora
rilucere un sole condannato. [...]
Mille volte mille anime deserte
salutano il giorno già perduto.
Mille e mille giornate inerti
sono un vile balocco venduto.»

Come evidente dal titolo, Weil si rivolge a un giorno, chiedendosi a cosa valga che egli nasca e passi anche per i vinti. Ma i vinti non sono solo coloro i quali sono stati piegati dalla forza: come scrive nell'Iliade o poema della forza, la violenza è qualcosa che semplicemente trasforma tutti in vinti. La forza contamina chi la subisce come chi la esercita (è il caso di Achille, che sottomette Ettore ma poi è a sua volta ucciso), di modo che alla fine risulti vincitrice solo la stessa forza, solo la stessa ragione brutale delle armi. Le "mille anime deserte" non sono, dunque, i soldati del fronte franco-russo o le vittime innocenti e disperate del conflitto, ma anche gli stessi occupanti, gli stessi giovani privi di valori autentici indottrinati dalla propaganda nazi-fascista ed esaltati fino a voler uccidere. Un giorno di guerra è "morto-nato" per tutti, per chi sopravviverà uccidendo e per chi resterà ucciso.

«Increspata nell'ombra, lor mano crede
di trattenere i secoli di sventura.
Invano l'asse dei cieli è giusto.
Giorno fragile e sacro, giorno augusto,
giorno, per loro non sei dischiuso.»

Il termine "sventura" utilizzato nelle traduzioni italiane è probabilmente il migliore disponibile, eppure le altre lingue europee non posseggono un perfetto equivalente del termine francese -malheure: è l'infelicità ma è anche l'essere fatalmente colpiti da essa, l'essere vittima di un destino avverso e crudele, appunto da una sventura. Ma la maggior parte degli uomini è colpita, oltre che dall'impietoso clima politico, anche da una ulteriore forma di sventura: quella della mancata comprensione della dimensione mistica, per così dire. Essi, secondo Weil, stoltamente si sforzano di arginare i mali, credendosi artefici del proprio destino o reputandosi in grado di contrastare i casi della vita, quel che la tradizione popolare apostrofa con "se Dio vuole" o "Dio ha voluto così". Infatti, Simone Weil ha qui imboccato una via propriamente religiosa. L'"asse dei cieli", volgarmente "il volere di Dio", dice Weil, è giusto: sono i profani che non se ne rendono conto, che non riescono a cogliere questa giustizia, e così se ne lamentano e cercano anche di contrastarla. Il giorno benedetto (che è, per la giustizia ultraterrena, ogni giorno), per loro non è ancora sorto e non può sorgere.

«Giorno senza forza, la pietra
tu non potrai attraversarla.
Un muro ti sottrae a chi ti ama.»

Decorazione di Simone Weil ai suoi Cahiers. Distinguiamo
tra l'altro citazioni dal greco antico, dal sancrito, dal
latino, citazioni da Platone, dal Vangelo di Giovanni, il
nome della dea egizia della verità e della giustizia, Maat.
Questi tre versi richiamano un tema affine a quello della grazia, o meglio dello stato di grazia in cui si trova chi abbia compreso e accettato la rivelazione come Weil: si tratta di riconoscere, per la prima volta con tale intensità, la bellezza dell'universo. Ad Antonio, prigioniero in un campo a cui Simone Weil scrive lettere e invia pacchi, fa osservare la stessa cosa: pur imprigionato, pur privato della libertà e degli affetti, pur soggetto e privazioni, lui e qualunque essere umano dovrebbero poter confermare la straordinaria bellezza della vita e dell'universo tutto anche solo per il poter contemplare il cielo. Solo una cosa può impedire all'uomo di guardare il giorno o la notte stellata ed è appunto la prigione: ma, dice Weil, questo ostacolo è praticamente ininfluente, considerata la percentuale di esseri umani privi anche solo di una piccola finestra sul blu, rispetto a tutto il resto dell'umanità. Il cielo, dice, non manca sopra la testa di nessuno ed è bello ovunque nello stesso modo: rappresenta la semplice gioia di essere vivi, la capacità di cogliere la grandezza e la pienezza della vita anche nella sventura, anche nella solitudine, attraverso le cose piccole e gratuite.
Riferendosi a chi abbia raggiunto questo stato di grazia, a questo cuore illuminato dalla buona novella, Weil scrive:

«E il lungo giorno sia per lui il patto
che senza fine congiunge l'anima esatta
alla bilancia nei cieli innata.
O lungo giorno, te che egli avido berrà,
passa e colmalo d'un vuoto
che lo renda agli dèi pari.»

L'immagine della bilancia è cara a Weil e la vediamo tornare nelle riflessioni degli ultimi anni: l'asse verticale con i due bracci laterali non è altro che la croce. Il sacrificio di Cristo e la giustizia (terrena e ultraterrena, che è lo stesso) si sovrappongono nell'immagine della croce-bilancia, nel simbolo dell'equilibrio, e paradossalmente proprio l'equilibrio, la continenza, la rinuncia alla hybris, il ritrarsi da sé rendono l'uomo simile e vicino a Dio.

Per chi volesse approfondire, suggeriamo:
  • "La vita di Simone Weil", Simone Pétrement, Adelphi, 2010 (nonostante il tono fastidiosamente agiografico, si tratta di una biografia molto esauriente e arricchita da una vasta aneddotica).
  • "Piccola cara... Lettere alle allieve", Simone Weil, Marietti, 1998 (una raccolta postuma delle lettere a cura di M. C. Sala; contiene la poesia A un giorno).

sabato 27 settembre 2014

Le onde del destino, Lars von Trier

Film del 1996, diretto da  Lars von Trier, vincitore del Premio della Giuria al festival di Cannes.
Narra di una storia d'amore folle e sovrannaturale tra Bess, interpretata da Emily Watson(che ottenne una nomination  al Premio Oscar come migliore attrice), e Jan, interpretato da Stellan Skarsgård. La storia si svolge in un paesino scozzese, isolato e gelido, in cui la legge vigente è quella della chiesa presbiteriana. Bess è una ragazza molto religiosa, ma di una religiosità eccentrica e particolare, perché autentica e anticonformistica: è dedita alle attività condotte dalla sua chiesa, e per questo è amata, ma allo stesso tempo è guardata con sospetto.  É considerata un'isterica, una personalità anarchica e destabilizzante rispetto all'ordine vigente.
Jan è uno straniero, sembra venire dal nulla: giunge in questo paesino per sposare Bess. Con l'esperienza del matrimonio, la protagonista scopre a poco a poco la dimensione del sesso, l'amore carnale, e questa diventa l'unica forma di amore autentico nella sua vita. Dopo un breve periodo di idillio, Jan è costretto ad andarsene, per lavorare su una piattaforma petrolifera. Bess non riesce ad accettarlo. Supplica Dio di riportare Jan da lei. Dio la ascolta: Jan avrà un incidente sul lavoro, restando completamente paralizzato.
Da qui ha inizio la Passione di Bess: lei comincia a credere, in preda ad un delirio mistico-religioso (che alla fine del film, si rivelerà come stretto legame della ragazza con una dimensione trascendente e misteriosa), che se si darà a tutti gli uomini, se sacrificherà se stessa, riuscirà a far guarire e salvare il suo uomo.
Bess comincia così a condurre una vita dissoluta, dandosi come l'ultima delle puttane a tutti gli uomini che le capitano; e come una puttana sarà emarginata, scacciata dalla sua chiesa, rinnegata dalla sua famiglia.
Dopo il sacrificio, il miracolo: Bess muore, Jan guarisce. Il corpo di Bess scompare, le campane, che erano sempre state considerate un vezzo dalla chiesa locale,  cominciano a suonare.
Il tema portante di questo film è l'amore evangelico. Il regista porta avanti una critica serrata alla chiesa presbiteriana, e allo stesso tempo elabora una sua idea di amore cristiano autentico. La chiesa è caratterizzata da una religiosità che si è irrigidita nelle convenzioni, nei dogmi, nell'ossequiosità nei confronti della gerarchia. Ordine, disciplina, rigore sono le regole della cristianità. Non c'è amore, ma solo obbedienza.
Per Bess l'agape cristiana coincide con l'erotismo. il vero amore è il sesso; e da vera religiosa quale è, Bess comprende che, soltanto amando l'umanità come ha amato il suo Jan, potrà salvarlo. Esiste solo una forma d'amore, quella assoluta e pura che lei ha provato per Jan, quella che porta gli uomini a fondere i loro corpi. Ogni forma di sublimazione è solo pura mistificazione, è una forma di dominio.
Nella vicenda di Bess si scorge la vita di Cristo: l'amore che egli ha nutrito per l'umanità è un amore carnale, passionale, sadomasochistico. Cristo si fa crocifiggere dagli uomini, e gli uomini traggono da questo giovamento e nuove energie per cercare di salvarsi. In ogni amore autentico, si replica questo sacrificio. Come Cristo, anche Bess parla con Dio: quello che sembra un folle monologo (Bess prega, e allo stesso tempo "scimmiotta" la voce di Dio, una voce severa e autorevole), in realtà è un dialogo. Nel momento più tragico della passione di Bess, quando si sta avviando a compiere il suo sacrificio, lei si rivolgerà a Dio, e lui non le risponderà. Anche Bess si chiederà perché Dio l'ha abbandonata. Come Cristo, la vita di Bess è caratterizzata da un amore incondizionato, che la porterà ad annullarsi; anche Bess, dopo la morte, risorgerà: infatti, non sarà trovato il corpo della ragazza che era stato gettato in mare dopo la sua morte.
Dio si incarna in una folle donna che scopre in sé una sessualità promiscua, che non riesce a comprendere come sia possibile una forma d'amore in cui gli uomini non si toccano nemmeno, non si guardano, non si ascoltano. Si incarna negli ultimi, in coloro che vengono emarginati proprio
da quella chiesa che pretende di essere Suo rappresentante in terra.
Un'interpretazione blasfema della vita di Gesù, e allo stesso tempo un'interpretazione sacra e religiosa della sessualità. In questo chiasmo, emerge tutta la genialità di quest'opera meravigliosa.

giovedì 10 luglio 2014

"Moleskipersi" di Bronski

Moleskipersi sono tutti quei “pensieri persi non si sa quando e neppure dove, incapaci di essere ripensati da chiunque in qualsiasi angolo della terra, mai più”, scrive l’autore nella dedica. I versi sono, quindi, pennellate fugaci, immagini ad intermittenza, gesti indescrivibili. La carta li trattiene, li fissa, li intrappola nel giogo dell'eternità. E non sono più moleski-persi. Le pagine senza numeri (l'assenza di numeri sarà voluta?) scorrono sotto il segno di un filo rosso, quello di una critica spietata nei confronti di una società decadente che puzza di marcio. La rabbia, mascherata ora da nichilismo (“Prepara il piano B perché può darsi / che per qualche tuo compleanno / nessuno ti chiami.” – da "Piano B"), ora da misantropia (“Mi basta una parola, un gesto, un segnale non convenzionale. / Vi prego ditemi che c’è ancora qualcuno che non è uguale / a tutto là fuori…” – da "Nonluoghi"), ora da antiborghesia (“Anni che modificano il pensiero di rivoluzionari cheguevara / in abili pensatori manichei neo capitalistici…” – da "Tra un anno e l’altro"), sembra permeare l’intera raccolta, nella misura in cui il poeta si pone non al di sopra di tutti gli altri (cosa che potrebbe venire in mente ad un lettore poco attento), ma, con grande intelligenza, in una posizione intermedia, la posizione di colui il quale conosce la vita e ne parla, non lasciandosi trascinare dal pessimismo cosmico, ma cogliendo un bagliore di luce. La scrittura, infatti, esorcizza il dramma di una società che tende a incurvarsi su se stessa, come lo spazio-tempo. Ed ecco che la penna ferisce più della spada. No, non “è solo carta”. Quella di Bronski (chiaramente uno pseudonimo) sembra materializzarsi sulla carta come immagini di concetti inafferrabili alla mente umana. Il lettore si illumina: ha visto una verità che prima era un vedo-non vedo di turpitudini e inettitudini. Non si può essere indifferenti. Il disvelamento avviene tramite un’ironia amara che vede gli individui deformarsi: ecco quello che sono veramente. Esseri deformi. Ma, in fondo, "'a morte 'o ssaje ched''e?...è una livella" (come scriveva Totò nella sua celebre poesia) che uniforma belli e brutti, ricchi e poveri, buoni e cattivi. 

FASCINOSI E SINISTRI

Fascinosi e sinistri giorni.
Fascinosi e sinistri volti.

Ti hanno licenziato
fascinosi e sinistri superiori
subalterni a qualcun altro.

Che a sua volta verrà licenziato e
per lui si prospetteranno
fascinosi e sinistri momenti.

Chi c’è all’apice,
Chi è il grande burattinaio?

Chi è il fascinoso e sinistro
caput mundi plenipotenziario?

Un fascinoso e sinistro imbecille.
Sicuramente figlio di un fascinoso e sinistro
figlio di puttana che ha raggiunto la cima
non facendosi scrupoli di niente e di nessuno.

E il figlio è lì che si specchia…
Ma quanto sono fascinoso…
Ma quanto sono sinistro…
Ho il controllo di tutto…
Sono plenipotenziario…

Poi un giorno lo troveranno morto,
morto in un modo né fascinoso né sinistro.
Solo morto.
Come i morti.

Poeta e musicista (per chi non l'avesse ancora capito Bronski è un bluesman, bassista e chitarrista in una band molto conosciuta) si fondono, rappresentati ora dalla sensibilità ora dalla musicalità del ritmo veloce, a tratti martellante del verso libero. Il filosofo agisce come il subinconscio: è una presenza-assenza, ma il lettore lo percepisce assieme agli influssi di Bukowski, De Andrè, Ginsberg. La società risulta smascherata, scarnificata, ridipinta. 

Non preoccuparti se per tutta la vita hai scelto la forma,
l’eleganza, il bon ton, il cercare di apparire in ordine e l’andare
d’accordo con tutti…
Non uscirai in ordine da quella porta.
È troppo stretta.
(da “Com’è stupido andarsene”)

Ecco che la finzione diventa realtà e “il vento continua a soffiare, / il cielo a schiarirsi e ad annuvolarsi / e tu…? // E tu non sei un cazzo.” (da “Fiction”). Anche l’amore è sempre un disamore, una nostalgia, un ricordo fugace, una passione cruda, una disillusione, una incomunicabilità, un senso unico alternato.

Forse stai parlando sottovoce…
O forse è troppo il rumore intorno.
Non ti sento.

(da “Basso profilo”)

Il ravvedimento e il disincanto, eccoli qui i temi portanti! Il poeta scrive perché ha aperto gli occhi, il suo corpo ha rigettato l'invasione della società, la scrittura lo libera e ci libera. Questa poesia ci porta dove tutto sembra riunirsi e staccarsi, perentoriamente; siamo sul filo del rasoio, ma noi viviamo beati nel crogiuolo delle nostre vite, ignari di tutto fino a quando qualcuno ci tira fuori dall'ovattamento. Tutto d'un tratto respiriamo. 
E ci sembra di capire perché la musica oggi fa schifo, perché un musicista non può vivere di musica, perché un laureato in gamba non riesce a fare carriera, perché le piazze sono piene di anziani che parlano ancora di fascismo, perché in centro non c'è mai posto e i pomeriggi d'estate fa caldo. 
Bisogna leggere questa raccolta tutta d'un fiato: strapperà un sorriso anche ai più compositi. 
Noi speriamo, dalla nostra, di leggere presto altre poesie di Bronski. 

sabato 7 giugno 2014

Le Mépris - Jean-Luc Godard

Pare che Jean-Luc Godard non avesse una buona opinione del romanzo di Alberto Moravia "Il disprezzo": lo definì «un volgare e grazioso romanzo di stazione, pieno di sentimenti classici e fuori moda, nonostante la modernità delle situazioni». Ed aggiunse: «Ma proprio con questo genere di romanzi spesso si girano dei buoni film».
Eppure "Il disprezzo" si presenta forse come uno dei romanzi meglio riusciti di Moravia, che dichiarò: «Lo considero uno dei miei romanzi migliori., perché al tempo stesso profondamente sentito e completamente inventato, che è secondo me la combinazione migliore per scrivere un buon romanzo». 
Non è un mistero che nel 1954 (anno di pubblicazione del romanzo) il rapporto tra Moravia e la moglie Elsa Morante fosse ormai agli sgoccioli. E infatti il romanzo narra della crisi tra i coniugi Riccardo ed Emilia Molteni. Riccardo è uno scrittore di teatro che abdica alla propria creatività accettando, per motivi chiaramente economici, la professione di sceneggiatore cinematografico. La crisi arriva repentina e modifica inspiegabilmente (o quasi) i sentimenti di Emilia per il marito: il disprezzo, che nasce da un pretesto narrativo, si palesa come il vero protagonista del romanzo, ciò che muove e anima tutti i personaggi. È il disprezzo verso l'uomo povero (Molteni), che si trova in una condizione di dipendenza dall'uomo ricco (il produttore Battista), ma è anche il disprezzo della realtà degli anni Cinquanta (quella dell'industria culturale) verso l'intellettuale-artista (la creatività ostacola il commercio: bisogna produrre, anche sforzandosi, ciò che piace al pubblico acquirente). La realtà dell'industria culturale è personificata nella figura di Battista, che assume Molteni per scrivere una sceneggiatura epocale dell'Odissea, in cui siano ben visibili fanciulle seminude e tutto ciò che possa accaparrare pubblico. Di contro il regista tedesco Rheingold ne propone una versione modernizzante e psicanalitica: Ulisse avrebbe lasciato Itaca e ritardato il suo ritorno il più possibile a causa di una crisi con la moglie Penelope. Non solo! Ulisse chiederebbe alla moglie di assecondare le avances dei Proci ed agirebbe da "uomo" unicamente perché spinto da Penelope. L'Odissea di Rheingold diventa lo specchio attraverso il quale Molteni, uomo riflessivo, riesce finalmente a comprendere il motivo del disprezzo della sua Emilia.
Il film, del 1963, trascende le tematiche del romanzo moraviano e le supera, costituendosi come una vera e propria riflessione sul cinema: il disprezzo di Emilia (nel film Camille) si intreccia ad una indagine tutt'altro che distaccata sul cinema mainstream, un cinema in cui ogni singola inquadratura viene monitorata dal produttore, il più delle volte mosso da interessi economici. La scena iniziale è quasi una professione di fede: è il giudizio del cinema sul cinema, ma anche del regista sul pubblico, della cinepresa sulla realtà (la scena si chiude, infatti, con la macchina da presa puntata proprio verso lo spettatore). Godard, accompagnato dalla musica struggente di George Delerue, legge i titoli di testa, che terminano con una frase di André Bazin («Ai nostri occhi il cinema costituisce un mondo che si accorda ai nostri desideri») a cui Godard aggiunge «"Il Disprezzo" è una storia di questo mondo». Quello che si preannuncia è un cinema del disincanto.
Ai personaggi vengono cambiati i nomi e le nazionalità: Emilia e Riccardo diventano Camille (Brigitte Bardot) e Paul Javal (Michel Piccoli), Battista Jeremiah Prokosch (Jack Palance), Rheingold Fritz Lang (che è interpretato da Fritz Lang in persona). Ogni personaggio parla una lingua diversa (i personaggi sono smarriti, li permea un senso di estraniamento), per cui quella di Francesca Vanini (Giorgia Moll), l'assistente di Prokosch, è una figura centrale: non solo fa da interprete, ma rappresenta anche l'alterego di Camille. Entrambe, infatti, sono caratterizzate dal colore giallo (si pensi all'accappatoio che indossano a Capri) e dal colore rosso (si pensi alla maglia indossata da Francesca Vanini nella villa di Prokosch e alla coperta con cui Camille copre il proprio corpo nudo nella scena - a mio parere magistrale - del litigio col marito). 
In genere, il colore ha un valore simbolico: nei primi cinque minuti, il momento dell'idillio della coppia vede l'alternarsi di più filtri. Il rosso, il bianco, il blu permeano totalmente i corpi dei protagonisti, come se lo spettatore si imponesse con forza nella loro intimità. Eppure la frase di Paul «Ti amo totalmente, teneramente, tragicamente» ci inquieta perché preannuncia un destino di morte e di separazione. Fritz Lang non partecipa alla trama del destino. Egli è lo sguardo altro, colui che guarda da una posizione immutabile e inattaccabile: egli è il cinema stesso. "Le mépris" è, quindi, un metafilm. Molti sono i riferimenti al cinema: Brigitte Bardot, bionda, indossa spesso una parrucca bruna e ciò richiama sicuramente "La donna che visse due volte", di Hitchcock; nella scena del provino a Nausicaa viene mostrata la locandina di "Viaggio in Italia" di Rossellini; il cognome di Francesca Vanini ci fa venire in mente il film "Vanina Vanini", di Rossellini; vengono nominati Griffith e Chaplin. Il fatto stesso che i personaggi parlino lingue diverse è un chiaro riferimento a "Un americano tranquillo" di Joseph L. Mankiewicz.
Il film è la celebrazione della genialità di Godard, ma è anche un omaggio al cinema: non ci si spiega proprio il perché delle manipolazioni che il film subì nella versione italiana (oddio, rendere il film un susseguirsi di scene totalmente illogico avrebbe sicuramente giovato al produttore Carlo Ponti). Intanto i personaggi parlano tutti in italiano (ebbene, l'estraniamento viene eliminato e l'interprete - ridicola - non fa altro che ripetere ciò che già viene ad essere comprensibilissimo); la musica di Delerue viene sostituita dal jazz di Piccioni; i titoli di testa scorrono semplicemente sullo schermo; viene tagliata la scena in cui Camille scopre nella tasca di Paul la tessera del PCI; il finale viene stravolto e con lui il significato dell'intero film. 
«Godard ha scritto: "Quando ci riflettevo a fondo, oltre che la storia psicologica di una donna che disprezza suo marito, Il disprezzo mi appariva come una storia di naufraghi del mondo occidentale, di scampati al naufragio della modernità, che un giorno approdano, a immagine e somiglianza degli eroi di Verne e Stevenson, su un'isola deserta e misteriosa, dove il mistero è inesorabilmente l'assenza del mistero, vale a dire la verità. Mentre l'odissea di Ulisse era un fenomeno fisico, io ho ritratto un'odissea morale: dove lo sguardo della macchina da presa, puntato su personaggi alla ricerca di Omero, sostituisce quello degli Dei puntato di Ulisse e i suoi compagni". In questa contrapposizione tra mondo classico e mondo moderno, e conseguentemente tra cinema classico e cinema contemporaneo, Godard ha filmato il suo film più "perfetto", dove non è che non si senta la sua cifra sperimentale, il suo inesausto avanguardismo, ma dove però tutto il suo rovello stilistico e la sua ricerca estetica si ricompongono in una superiore unità.» (Gianni Borgna, Il disprezzo da Moravia a Godard, in "I differenti. Capri 1963, Il disprezzo: Moravia, Godard, Bardot e gli altri")

Brigitte Bardot (Camille) e Michel Piccoli (Paul) in una scena del film.

lunedì 2 giugno 2014

"Lotta di classe" di Ascanio Celestini

Nicola, Salvatore, Marinella, la signorina Patrizia... I protagonisti di questo libro hanno nomi comuni perché sono persone assolutamente comuni: sono proletari, figli di una classe oppressa ed equivalente alla quasi totalità della popolazione di ogni Paese capitalista. Le loro vite potrebbero essere le nostre (a meno che voi che leggiate queste righe non abbiate un nonno che porta l'orologio sul polsino). Forse alcuni di noi, singolarmente, si trovano in condizioni migliori dei personaggi di "Lotta di classe", ma la loro condizione è la nostra: noi siamo i salariati, la classe operaia, quella che per sopravvivere e consumare deve svendere la sua forza-lavoro, alienare la propria libertà, scendere talvolta a compromessi morali.
Ascanio Celestini, nel suo romanzo corale, offre uno spaccato desolante della nostra classe. Il perno della narrazione è un triste condominio, e se l'ambientazione è chiaramente romana, quell'edificio avrebbe tranquillamente potuto essere parte delle Vele di Scampia o dei
Trecento Alloggi crotonesi, di Quarto Oggiaro, di Libertà o della Città Vecchia di cui canta De André, quei «quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi, ha già troppi impegni per scaldar la gente d'altri paraggi».
La vita di borgata è triste e squallida. Se Ascanio Celestini arriva a raccontare di tentati suicidi e tentati omicidi, di vicini ossessivi e folli, di situazioni gravi al limite del surreale, non credo proprio lo faccia per mero gusto dell'orrido né per suscitare commozione o pietà con un mélo esagerato e patetico. I suoi personaggi, poco meno che casi umani, non sono che frutti del tutto plausibili dello sfruttamento, dei ritmi di lavoro opprimenti, dell'ambiente sociale sgradevole e disumano, dell'alienazione. Si tratta di storie limite ben lontane dal fantastico o da un noir inverosimile: grottesche? Sì, lo sono. Ma non lo è anche la condizione di abbrutimento bestiale in cui tanti uomini sono ridotti, nelle nostre società super sviluppate di cui i neoliberisti vanno fieri e sono soddisfatti?
Le vite dei precari costretti a barcamenarsi tra diversi lavori e lavoretti, le vite degli operatori di call center costretti a lavorare ore e ore per pochi spiccioli (lordi) sono tali da portare una protagonista a dire che a sera:

«Mi spogliavo e mi sentivo leggera. Avrei continuato a spogliarmi, se fosse stato possibile. Mi sarei sfilata la pelle come un cappotto e l'avrei appesa a una stampella. A scuola c'insegnano che abbiamo quattrocento muscoli: me li sarei tolti uno per uno come fazzoletti sporchi dentro alle tasche. E le ossa? Solo nel piede ce ne stanno cinquantadue. E io le avrei messe in un secchio al lato del letto. Anche le vene le avrei tirate via, raggomitolate e messe in un cassetto. E poi la stanchezza che mi pesava come un maglione, e tutti i pensieri che c'avevo addosso».

Lo sfruttamento è così selvaggio e sregolato da ridurre il tempo di vita a margini irrisori tra un abisso di stanchezza e un fiacco moto di ribellione ogni tanto. Il tempo è denaro, ma il tempo di lavoro è tempo alienato: denaro, sì, ma del padrone.
Eppure, la situazione squallida e disumana, grigia e brutale che ci racconta Celestini, non è senza speranza. Il titolo del romanzo non è "La condizione operaia" o "La classe sfruttata": è "Lotta di classe". Sì, perché i suoi personaggi sono docili e sottomessi dal mercato, relativamente depoliticizzati, eppure non totalmente sconfitti. Tra di loro serpeggia come una spira di vapore la consapevolezza della propria condizione, ciò che può trasformare la "classe in sé" (l'effettivo gruppo dei lavoratori) in "classe per sé" (classe sfruttata che sa di essere tale e solo così può decidere di ribellarsi). Tutti i personaggi, di fronte ad atti crudeli o cinici, brutali o aggressivi, lo ripetono: «è lotta di classe». Non è ancora rivoluzione: è un istinto di sopravvivenza, è un moto d'orgoglio, è una speranza sopita ma non spenta.

sabato 26 aprile 2014

"Onirica - Field of Dogs" di Lech Majewski

A metà strada tra il racconto intimistico e il poema, Onirica - Field of dogs di Lech Majewski, è un trionfo di lirismo. Unico sopravvissuto ad un incidente stradale in cui perdono la vita la fidanzata Basia e il caro amico Kamil, Adam decide di reinventarsi un'esistenza. Conserva sul viso un'estesa cicatrice e nel cuore (come nelle parole della zia Xenia) la consapevolezza di avere sfiorato la cecità e la mutilazione: quel solo sfiorare la rovina personale, mentre i suoi cari hanno perso la vita stessa, è un rovello per il ragazzo. Oppresso dal senso di colpa per essere il solo sopravvissuto, incapace di dare un senso alla tragedia, troppo depresso e debole per affrontare il lutto ed elaborarlo, Adam chiude con la sua vecchia vita. Mette tra parentesi l'università, la poesia, le amicizie: tutto quanto ci fosse prima dell'incidente viene accantonato e rinnegato perché è troppo doloroso il confronto
La locandina del film
tra quel passato di normalità e il presente doloroso, solitario, privo di senso.

Adam trova lavoro in un supermercato e conserva un rapporto, sebbene altalenante e diffidente, solo con la zia Xenia. Cerca di reinventarsi da zero, rifuggendo la vita reale, calandosi nella Divina Commedia come in un altro mondo che inghiotta quello attuale, che oblii il nulla di una vita rimasta priva di logica. Ma il passato non accetta di venire sepolto prematuramente: i cari di Adam, Kamil, il padre contadino, Basia, lo perseguitano in sogno.

Il film alterna allora l'inconscio di Adam, una dimensione onirica resa con maestria e grande forza suggestiva, con una dimensione oggettiva e corale di tragedia e lutto: i tragici eventi che segnarono la Polonia nel 2010, dai disastri naturali all'incidente aereo che causò 96 vittime tra cui l'allora Presidente polacco Lech Kaczyński.

In un'atmosfera di tragedia diffusa, la sofferenza individuale di Adam si scioglie in quella collettiva senza per questo risultare smorzata. Il senso di precarietà della vita è amplificato dalla portata collettiva degli eventi drammatici e Adam ne ricava un sentimento più acuto di solitudine. La fragilità della vita e l'apparente assenza di logica e significato nel suo brusco infrangersi spingono Adam, senza risultato, a ricercare un senso nella religione. A differenza di un travail de deuil solitario ed introspettivo, Adam sceglie di rivolgersi alla Chiesa perché essa sembra offrire un percorso meno doloroso: l'intimità lacerata non è coinvolta né intaccata dal discorso del tutto esteriore, dai contorni rituali, offerto dal prete. Infatti, il colloquio di Adam con il sacerdote si risolve in una infruttuosa teodicea. Dio è un mistero che smetterebbe di esistere se svelato: non è che l'incarnazione della speranza di ciascuno, per ciascuno diverso e del tutto indipendente dal rito e dalla Scrittura. Queste riflessioni non spingono Adam neppure un passo più avanti nell'elaborazione del suo lutto, nel superamento del suo amore spezzato. La stessa insignificanza ricoprono le citazioni di Epitteto e Seneca che gli offre la dotta zia Xenia. La verità è che Adam è solo perfino rispetto a sé stesso e non può ricavare sollievo né dalla filosofia né da una vuota ritualità. Solo la Divina Commedia e il sogno possono accompagnarlo nella strada solitaria alla ricerca di un senso o nella fuga da esso.

Lunghe citazioni del poema dantesco si accompagnano a felici scelte registiche. Composizioni spettrali e criptiche sposano i lunghi, eloquenti silenzi. L'atmosfera è distorta, magistralmente deformata dal grandangolo dell'inconscio, e in questo il film mi ha ricordato molto Mulholland Drive di David Lynch. Le simbologie bibliche e dantesche delineano stati d'animo e frammenti di sogno che esplodono in tutto il loro lirismo. Tutto il film è imperniato sul rapporto con la morte, sulla sua altalenante interpretazione; ed è accarezzato da un velato e a tratti simbolico erotismo. La coppia di amanti che ascende al cielo, lasciando dietro di sé la serpe del peccato e della lussuria che viene spazzata via da un colpo d'ali della candida colomba, raffigura l'amore come è vissuto (o piuttosto, vista la morte di Basia, sognato) da Adam: come una potenza salvifica, come la sola cosa autenticamente sacra e capace di elevare l'anima dell'uomo. Basia-Beatrice regala ad Adam-Dante quel senso di vita e di eternità che non aveva saputo ricavare né dall'argomentazione razionale dei filosofi né, tanto meno, dal culto sterile e superficiale, offerto dalla Chiesa.

Il tributo a Dante, alla Commedia e alla Vita Nova, è manifesto. L'elogio della poesia e dell'amore come ancora più celeste e sublime poesia è il tema che pervade delicatamente i sogni spettrali e perturbanti come gli scorci desolanti della vita reale, tra solitudine desolante e disastri che sanno quasi di apocalisse imminente. Un freudismo sottile si insinua nell'insieme senza turbarne l'armonia né la poesia ai limiti (anzi, ben oltre i limiti) del razionale. E in tutto questo, il nome del protagonista può essere casuale?
Il giovane uomo è forse proprio quell'Adamo «a cui ciascuna sposa è figlia e nuro»: è il primo uomo, è l'Uomo, solo di fronte ai temi universali che irrorano di sé ogni autentica poesia e che ad uno sguardo appunto poetico appaiono a volte i minimi termini a cui tutta la realtà può essere ridotta, i due atomi elementali e misteriosi che da sempre incantano l'uomo e che sempre lo incanteranno: la Morte e l'Amore.

martedì 15 aprile 2014

"Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il padrone?" di Dario Fo

La commedia in due atti, sottotitolata "lotte operaie 1911-1922", racconta di Antonia, una «ocona» svampita e frivola che l'amore per il socialista Norberto «detto Saxofono» (per via della sua voce bassa e suadente) trasforma in una militante temeraria. Al principio della fabula, Antonia capita per caso in uno scantinato pieno di ferventi socialisti intenti a complottare sabotaggi e occupazioni. Tra loro ci sono un fanatico «trombone», un certo Mussolini, e un operaio in giacca e cravatta che subito colpisce Antonia con la bella presenza e la voce appunto da saxofono. Lui ci tiene a stare in giacca e cravatta perché i padroni vogliono gli operai morti di fame, mentre lui lotta per la loro dignità e libertà dallo sfruttamento. Il colpo di fulmine fa appena in tempo ad abbattersi sulla ragazza che una retata delle forze dell'ordine fa sgomberare lo scantinato. Trascinata in commissariato, l'ingenua Antonia spiffera tutto quello che ha sentito, causando l'arresto dei due socialisti che spiccavano nel gruppo di sovversivi: al giovane Mussolini vengono fatti bere due litri di acqua e sale mentre il bel Norberto detto Saxofono, superata l'arrabbiatura iniziale per l'involontaria soffiata di Antonia, la prega di portare un messaggio ai compagni rimasti in libertà. Lei si offre di assumere un'identità fittizia, quella di «morosa» del Saxofono, e quando lui le dà il via libera, lei chiede candidamente: «Posso dirlo in giro?». E, ricevuto un nuovo, stupito assenso, prende a saltellare festosa per il commissariato: «Ho il moroso rivoluzionario più bello del mondo!».
Conosciuti in un covo clandestino di sovversivi, fidanzati in commissariato, i due si sposano dopo un periodo di reclusione che Norberto deve scontare per la sua attività rivoluzionaria e Antonia, già incinta, trascorre tra l'umile lavoro e il nuovo interesse per la politica.
Antonia non si vota alla causa rivoluzionaria per mera osmosi né per ottusa emulazione, né tanto meno a causa di un entusiasmo passeggero legato alle lotte operaie che scuotono Torino (dove la storia è ambientata): lei vuole imparare il linguaggio della politica non per adeguarsi alle passioni del marito, non per compiacerlo, ma per capire le sue arringhe e le sue affermazioni, per seguire i dibattiti che lui tiene con gli amici, per poter fare domande e mettere bocca. L'innamoramento per il suo Saxofono è solo la scintilla che fa scattare in lei il desiderio di comprendere la sua realtà e di viverla autenticamente, in prima persona. Alla consapevolezza segue immediatamente l'azione: dal farsi interrogare dalle colleghe sarte per memorizzare meglio cosa vogliano dire termini come "massimalisti" e "turatiani", passa all'andare in giro carica di volantini di propaganda.
Quando l'attività clandestina di Norberto lo porta per l'ennesima volta dietro le sbarre, Antonia ha una vera e propria crisi di coscienza e la sua fede, che in pochi anni era nata e si era consolidata, vacilla. Si chiede se valga la pena lottare, se non sarebbe meglio avere un marito che non capisce un'acca di politica e si lava le mani dello sfruttamento degli operai, se il suo stesso impegno politico non sia superfluo o addirittura dannoso. Due anni dopo è di nuovo nel commissariato, tra una ricca industriale, il capitano di allora (intanto diventato colonnello) e un fascista, e di fronte a loro difende la causa rivoluzionaria con forza e ironia, senza risparmiare insulti e minacce, senza tentennare di fronte al potere, alla solidità dell'ordine costituito, alla violenza di chi lo rappresenta, ai sacrifici e alle difficoltà in agguato per chi insegue nonostante tutto l'utopia socialista.
Fittamente intrecciata con la vicenda personale dei protagonisti è la storia che corre dal 1911 al 1922: l'occupazione delle fabbriche a Torino, l'attività (controproducente) di sindacati e partito socialista, la frattura al suo interno che porta alla nascita del partito comunista (al quale immediatamente si votano i protagonisti), la nascita dei fascisti a tutela dell'ordine dei padroni, la repressione. In "Novecento", Bernardo Bertolucci fa pronunciare a Olmo Dalcò queste parole:



«I fascisti non sono mica come i funghi, che nascono così, in una notte. No. I fascisti sono stati i padroni a seminarli, li hanno voluti, li hanno pagati. E coi fascisti i padroni hanno guadagnato sempre di più, al punto che non sapevano più dove metterli i soldi.»

Questa stessa fenomenologia è la filigrana che si intravede nelle ultime sequenze della commedia scritta da Dario Fo, quando Antonia (interpretata da Franca Rame nel debutto del 27 marzo 1971 a Varese Belforte) ribatte con sarcasmo e sfacciataggine al borioso fascista che non incarna ancora una forza propriamente politica ma solo il braccio armato vigliacco e interessato dei ricchi industriali e degli agrari.
A proposito di un'altra sua commedia, "Morte accidentale di un anarchico", Dario Fo diceva che è sempre meglio trattare del materiale drammatico in modo comico: così facendo si evita la catarsi, la purificazione attraverso il dolore dell'immedesimazione e il pianto liberatorio. Dopo un bel pianto, l'evento triste o rabbioso che lo ha scatenato è come accantonato. Trasformare un evento doloroso in una farsa (come nel caso dell'assassinio di Giuseppe Pinelli nella commedia citata) invece contribuisce a che il dolore e la rabbia non si sfoghino ma restino nello spettatore a covare, a covare, ad alimentare rabbia e indignazioni più durature di uno sbotto o di un pianto, capaci di stimolare profondamente la coscienza. "Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il padrone?" cerca di conseguire questo stesso scopo: tra gag clownesche e battute a profusione, delinea la genesi del fascismo all'indomani di una rivoluzione mancata e la lascia a covare nello spettatore (o nel lettore), a decantare, a farsi oggetto di riflessione storica e politica.

sabato 22 marzo 2014

"Il conformista" di Alberto Moravia

Marcello Clerici avverte fin da piccolo di nascondere qualcosa di "sbagliato" dentro di sé. È una sensazione inconsapevole ed opaca che si manifesta in piccoli, malsani modi: in stragi di lucertole. Piccole crudeltà inspiegabili che contemporaneamente generano in Marcello senso di colpa, bisogno di punizione e desiderio di rifuggire questa spietata "anormalità". Per convincersi di non essere poi così diverso dagli altri prova a coinvolgere l'amichetto Roberto nelle sue violenze sulle lucertole, ma il bambino si rifiuta disgustato. Marcello adesso è certo di essere un diverso perché non è più una sua impressione, magari erronea, ma la condanna di un'altra persona.
Cerca una punizione che gli permetta di espiare la sua colpa, che non è l'uccisione delle lucertole ma la semplice diversità. Aspira ad una «normalità riscattatrice»: confessa allora i suoi delitti alla madre, giovane e bella borghese troppo presa da benessere e mondanità per curarsi dei disagi del figlioletto. Per essere certo di guadagnarsi l'attenzione della madre,
Marcello ingigantisce il suo crimine: confessa di avere ucciso un gatto. Sua madre, distrattamente, gli risponde di aiutarla ad allacciarsi una collana.
L'indomani, Marcello scorge movimenti dietro la siepe che divide il suo giardino da quello attiguo di Roberto. Un raptus di violenza lo spinge a colpire quel punto con la fionda, sapendo che il suo gesto ucciderà il compagno di giochi. Dietro il fogliame, invece, si nasconde un gatto, che resta effettivamente ucciso. Nel corpo stecchito della sua vittima, Marcello riconosce il gatto di cui, in qualche modo misterioso e inconsapevole, aveva annunciato la morte il giorno prima. La tragedia di Marcello, a questo punto, è bell'e scritta, e tutta la sua vita di conformista seguirà da questo episodio infantile con l'ineluttabilità di un teorema di geometria.

«Egli sapeva che questa fatalità voleva che uccidesse; ma ciò che lo spaventava di più non era tanto l'omicidio quanto di esservi predestinato, qualunque cosa facesse.»

La violenza diventa allora inevitabile per Marcello, come il desiderio costante di nasconderla a sé stesso e agli altri. Continua per tutta la vita a sforzarsi di dimostrare la propria normalità, quando questo significa sposare Giulia, una giovinetta borghese mediocre e che non ama affatto, o quando significa diventare un fascista.
Sebbene la tragedia di Marcello, disperato conformista, sia già inscritta in nuce nella sua infanzia, un dispiegarsi più completo del suo significato meno manifesto deve attendere i tredici anni del protagonista: Lino, un autista pedofilo, adocchia il ragazzino all'uscita da scuola. Lo adesca, allettandolo con la promessa di regalargli una pistola (fin da piccolo, Marcello amava le armi, e non quelle giocattolo ma quelle vere, quelle davvero capaci di uccidere). Lo carica in macchina, lo porta in una villa deserta e lì cerca di consumare la sua violenza sessuale sul piccolo sprovveduto. In un'estremo tentativo di salvarsi, il ragazzino riesce a impadronirsi della famosa pistola ed esplode un colpo contro l'aggressore per poi dileguarsi dalla finestra, lasciando nella stanza chiusa a chiave dall'interno la scena perfetta di un suicidio. Nessuno cercherà il colpevole.
L'uccisione di Lino non verrà mai scoperta e lo stesso Marcello non racconterà l'episodio che al suo confessore, alla vigilia delle nozze. Ma il ricordo di quell'atto di violenza, naturale eppure imprevisto seguito della serie iniziata con le lucertole e il gatto, tormenta il Marcello adulto, lo spinge con maggiore disperazione alla ricerca delle «divinità gemelle della rispettabilità e della normalità». Quando la violenza e il delitto diventano la regola e la normalità, con l'instaurarsi del regime fascista, a Marcello non resta che entrare nella polizia segreta e dedicarsi con abnegazione al lavoro assegnatogli. Quando gli viene commissionato l'omicidio di Quadri, suo professore ai tempi dell'università, diventato antifascista e scappato a Parigi, Marcello accetta con tutta la gravità dovuta ad un rito purificatorio. L'omicidio non è più un comportamento deviante ma il prezzo della normalità.

Quando Bernardo Bertolucci mette mano a Il conformista per farne un film, la storia firmata da Moravia non resta materia inerte ma viene manipolata ed arricchita di risvolti psicologici di sapore freudiano. L'uccisione di Quadri e la reclusione del padre di Marcello in manicomio diventano un duplice simbolo edipico, una doppia figura di padre rinnegata e assassinata (Franco Prono identifica nel doppio parricidio l'ostilità "professionale" di Bertolucci verso i suoi due padri d'arte, Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini). Ma il tassello più pregevole con cui Bernardo Bertolucci arricchisce Il conformista di Moravia è l'esplicitazione di un sottotesto che nel romanzo resta del tutto larvato (al punto che ci si può chiedere se facesse davvero parte delle intenzioni di Moravia o se sia frutto originale di interpretazione). Se nel romanzo il piccolo Marcello uccide Lino per difendersi da un'aggressione violenta, nel film il giovinetto sembra assecondare inizialmente le avances del pedofilo e solo qualche minuto
Jean-Louis Trintignant nel ruolo di Marcello
Clerici ("Il conformista", 1970)
dopo un terrore violento lo spinge al tentato omicidio. La verità è che il giovane Marcello in Lino cerca di assassinare sé stesso, quella parte di sé che non disdegnava l'idea di un rapporto omosessuale. Marcello allora è un criptogay e questa è la radice profonda della "diversità" che ha in qualche modo sempre avvertito e che solo l'incontro con Lino ha portato alla luce in tutta la sua devastante verità. Marcello è omosessuale e non accetta di esserlo, quindi disperatamente conformista, quindi convintamente fascista e dedito alla sua causa con uno zelo che non ha nulla di ideologico né di puramente politico.
Terrorizzato dai rapporti interpersonali autentici, dai tête-à-tête, Marcello è a suo agio nella folla, in autobus, nelle adunanze oceaniche. È il regime che inghiotte il singolo e ne manipola la coscienza, facendosi carico dei suoi delitti per dargli l'impressione di non averli compiuti. Come i nazisti processati a Norimberga dissero di non sentirsi colpevoli dei crimine commessi in quanto si erano limitati ad "eseguire gli ordini", Marcello sente il peso e la gravità delle violenze compiute solo fino a quando è solo nel realizzarle. Quando uccidere non è più l'hobby perverso di un bambino ma la regola del regime, l'ordine che viene dall'alto, non è più una colpa da espiare ma un atto meritorio. L'assurdo diventa generalizzato e chi mantiene la lucidità e l'individualità, come l'antifascista Quadri fuggito a Parigi, diventa il "diverso", l'anormale, il capro espiatorio da sacrificare all'ordine costituito.

domenica 16 marzo 2014

"Il vecchio e il mare" di Ernest Hemingway

«Poi vai e rischia quel che devi rischiare come qualsiasi uomo o uccello o pesce.»


Il vecchio pescatore Santiago, con i suoi frequenti crampi e il vezzo da pescatore solitario di parlare da solo ad alta voce. Il mare, nella figura del magnifico marlin lungo oltre cinque metri e dai fianchi striati di color lavanda. Due protagonisti avvinti in una lotta estrema e a suo modo epica, due avversari che sono tali fino alla morte, senza del resto mai sentirsi nemici.
Per ottantatré giorni il vecchio Santiago non pesca più nulla: la fortuna sembra avere abbandonato la sua barca, che esibisce la vela ammainata come un simbolo di perenne sconfitta. Il giovane Manolin, che di solito lo accompagna al largo, è costretto dai genitori a lavorare con pescatori più fortunati. Il vecchio si sente più solo che mai. Si imbarca da solo e giura a sé stesso che prenderà almeno un pesce e né la vecchiaia, né i crampi, né la cronica assenza di fortuna possono scoraggiarlo, perché «un uomo può essere distrutto, ma non può essere sconfitto». Le difficoltà, il dolore, lo sconforto non
possono motivare una resa.
Il grande pesce abbocca, un marlin maestoso che rapisce il vecchio al mondo per giorni e notti interi, mette alla prova il suo fisico indebolito dall'età, la sua resistenza al mare e alla fatica, la sua fede. Ma la lotta non diventa mai odio, neppure per un attimo, nemmeno nel suo clou, nell'apice della violenza assassina che fa del cacciatore/pescatore quello che è.
La bellezza de "Il vecchio e il mare" sta in quella congiunzione che unisce i due nomi in un tutto realmente organico. Santiago e il mare-marlin non sono antagonisti ma compagni, costretti ad affrontarsi senza odiarsi.


«Vorrei poter dar da mangiare al pesce, pensò. È mio fratello. Ma devo ucciderlo e mantenermi forte per farlo.»


Il pesce non vuole fare del male a Santiago, ma affronta l'inganno dell'esca e poi la violenza dell'attacco con la muta dignità dell'animale nel cui occhio, tutt'altro che stupido, si riflette l'intero mare. Santiago deve fare del male al grosso pesce, ma lo rispetta e a suo modo lo ama. Usa verso la sua vittima quella grazia che può scaturire solo dalla consapevolezza della piccolezza umana, quella gratitudine che i cacciatori primitivi esprimono pregando e lodando il fratello animale che si è lasciato uccidere perché loro possano nutrire sé stessi e altri uomini. Il mondo moderno col suo cinismo è tagliato fuori da questo intimo colloquio tra Santiago e la natura: l'uomo prevale sul pesce come potrebbe farlo un guerriero in uno scontro tra pari, leale e dignitoso, e lo fa provando un acuto senso di umiltà. Il carnofallogocentrismo che Derrida denunciava nella figura del torero come in quella del cacciatore-pescatore, la predominanza violenta dell'uomo (precisamente maschio) sulla natura inerte e sottomessa sono totalmente estranei alla figura poetica e gentile di Santiago, pescatore per necessità e forse per vocazione, ma acutamente consapevole del legame intimo e indissolubile, quasi di sangue, che unisce l'uomo alle altre bestie, tutti ugualmente soli davanti alla morte e alla necessità di affrontarla con coraggio e onestà quando essa si presenti, sotto qualunque forma.

Dopo aver vinto il Premio Pulitzer, Hemingway ottiene anche il Premio Nobel ed entrambi, principalmente, per "Il vecchio e il mare". Con modesta ironia, l'autore disse che il secondo premio gli era stato conferito perché per la prima volta aveva scritto una storia senza usare la parola "shit". In realtà, lo stesso Hemingway era soddisfatto del suo lavoro e in una lettera a Wallace Meyer affermava che il libro «diceva qualcosa sulla dignità dell'animo umano». Nonostante la stroncatura di Dwight Macdonald che etichettò l'opera come eccellente esemplare di midcult, "Il vecchio e il mare" fu largamente apprezzato dal resto della critica e anche calorosamente accolto dal pubblico (se ne vendettero milioni di copie in pochissimo tempo). Nel 1958, il successo fu suggellato da una prima trasposizione cinematografica, diretta da John Sturges sotto la supervisione dello stesso Hemingway.


Il racconto, apparso nel 1952, può sembrare ispirato dal tardo soggiorno cubano di Hemingway, durante il quale si dedicò appunto alla pesca a bordo dell'imbarcazione Pilar, ma il materiale grezzo di cui disponiamo dimostra che la storia era delineata in modo piuttosto preciso nella testa dell'autore già da una quindicina d'anni. Nel '36 Hemingway appuntava: 


«Un vecchio che pescava da solo in un'imbarcazione catturò un grande pesce spada che tirando la pesante cima condusse l'imbarcazione verso il mare aperto. Due giorni dopo il vecchio fu raccolto dai pescatori a 60 miglia verso est, con la testa e la parte anteriore del pesce legate lungo la barca. [...] Il vecchio era rimasto col pesce un giorno e una notte, un altro giorno e un'altra notte mentre il pesce nuotava in profondità e tirava la barca. [...] Mentre era legato lungo la barca i pescicani lo avevano azzannato e il vecchio combatté da solo dalla sua imbarcazione nella Corrente del Golfo, prendendoli a mazzate, a coltellate, colpendoli con un remo, finché fu esausto e i pescecani ebbero mangiato tutto quello che potevano contenere. Quando i pescatori lo raccolsero piangeva nella barca, quasi impazzito per la perdita, e i pescicani stavano ancora nuotando intorno alla barca


Se questa storia (che peraltro pare essere vera) mostra un uomo distrutto per la perdita del corpo del marlin duramente pescato, il finale di Santiago esprime ben altri sentimenti. Sì, il vecchio pescatore di Hemingway è duramente provato nello spirito e riporta segni fisici dello sforzo (i palmi tagliati dalla lenza e sanguinanti) ma ha vinto la sua prova.
Hemingway rifuggiva con forza la violenza per la violenza, e misconosceva qualunque significato ai valori che avessero bisogno dell'uso della violenza per affermarsi. «Questo valeva per la guerra, questo valeva per il patriottismo, questo valeva in generale per i partiti dell'ordine» scrive Fernanda Pivano. Il fratricidio operato da Santiago ai danni del grosso pesce è un atto di tutt'altra natura: è la prova di un uomo che non accetta di dirsi sconfitto e si mette in gioco alla pari con il suo fratello-avversario.