Diciannovenne la prima, diciassettenne la seconda, le sorelle Dashwood incarnano due perfetti antipodi caratteriali, la passionalità e la posatezza, maldestramente rese dal titolo italiano "Ragione e sentimento" (non è poca la differenza col titolo in lingua inglese, "Sense and sensibility", che nessuna delle alternative italiane è mai riuscita a rendere soddisfacente, neppure il "Sensibilità e buon senso" proposto nel 1945 da Evelina Levi, che pure si avvicina di più al risultato auspicato e conserva l'allitterazione dell'originale). La contrapposizione tra la ragione e il sentimento, infatti, sembrerebbe suggerire una soggiacenza all'amore da parte di una protagonista e un'austera indifferenza (insensibile e magari calcolatrice) da parte dell'altra. Non è affatto così.
Infatti, la primogenita, Elinor potrebbe essere considerata incarnazione di un ottimo antirazionalismo, piuttosto che di una fredda razionalità a tenuta stagna. Come sua sorella è innamorata (del poco brillante e caratterialmente amorfo Edward Ferrars), ma fa sfoggio del suo "sense" mostrando un carattere pacato e la capacità di gestire le proprie pene amorose con dignità. Diversamente,
"Ragione e sentimento" nella bellissima edizione curata da Dacia Maraini per la collana "Grandi Autrici" del Corriere della Sera |
«Marianne Dashwood era nata per un singolare destino. Era nata per scoprire la falsità delle sue opinioni e per sconfiggere con la sua condotta le sue massime più care.»
Infine la terzogenita, Margaret, «aveva già assorbito una discreta quantità del romanticismo di Marianne senza aver la sua intelligenza, non prometteva, a tredici anni, di uguagliare le sorelle in un periodo più avanzato della sua vita». In poche parole è un'indegna nullità che si limita a fungere da tappezzeria, brillando per la sua assenza e irritando per la mediocrità che emerge da quell'unico rigo di descrizione che le è concesso in tutta l'opera.
La storia delle due sorelle maggiori si dipana tra villeggiature di campagna e soggiorni nella trafficata Londra, nell'accogliente benché modesto villino di famiglia e nei salotti altrui, in un avvicendarsi estenuante di ricevimenti, gite ed inviti. Con un'ironia che sembra a tratti lasciar affiorare una punta di disprezzo, Jane Austen offre spaccati attenti ed eloquenti della società borghese e aristocratica tardo-settecentesca e dei primi dell'Ottocento, dandone un'immagine piuttosto squallida. La necessità di intessere pubbliche relazioni, di curare la propria immagine e di stringere i rapporti giusti campeggia nelle preoccupazioni dei personaggi, che si dedicano senza requie all'abbellimento della propria dimora e alla selezione delle giuste frequentazioni, e che consumano il proprio intelletto e spremono le proprie meningi nella decisione su come trascorrere il pomeriggio (esercizio al pianoforte o gitarella sui verdi prati fuori porta?). Neanche il rubacuori Willoughby è esente da critiche (del resto meritate) per il suo opportunismo.
«"Tutto il suo comportamento" rispose Elinor, "dal principio alla fine di questo affare, è stato basato sull'egoismo. E' l'egoismo che da principio lo ha fatto scherzare col tuo affetto; che in seguito gli ha fatto ritardare la dichiarazione del suo, e che finalmente lo ha portato via da Barton. Il proprio piacere, o il proprio vantaggio, è stato sempre, in ogni particolare, il principio che lo ha diretto".»
Il frammento di società messo a nudo in "Ragione e sentimento" (come in tutta la produzione della Austen) è dei più repellenti. Gentaglia ben vestita e benpensante che vive di rendita e si sdilinquisce in affettati convenevoli, misconoscendo la fatica come l'autenticità dei rapporti umani. Si potrebbe godere del caustico sguardo dell'autrice se in "Ragione e sentimento" si conservassero intatti e coerenti quel tono critico e quella ironica presa di distanza che mi hanno fatto apprezzare "Lady Susan". Invece, nonostante i personaggi che fungono da contorno e sfondo (l'ottusa lady Middleton con i suoi marmocchi, la pettegola signora Jennings convinta con le sue invadenti e maldestre pratiche da agente matrimoniale dilettante, le sorelle Steele con i loro modi da gattemorte, la gelosissima e perfida Sophia Grey che si disputa il belloccio Willoughby con Marianne) siano spietatamente descritti in tutta la loro pusillanime superficialità, anche le due protagoniste sembrano avviluppate nella mentalità del loro ceto.
Anche loro vivono di salotti e tempo libero, osservarlo è ovvio e banale, oltre che superfluo. La narratrice cerca di rendere le sue protagoniste più apprezzabili mostrandone le sofferenze amorose, le oneste intenzioni, la sincerità dei sentimenti, il mancato attaccamento ai rapporti intessuti per interesse o per prestigio. Quando una delle due sorelle riesce a coronare il suo sogno d'amore, accasandosi con l'amato, ogni lettore si direbbe appagato così e sguazzerebbe festoso nel lieto fine. Invece, Jane Austen rimane vittima della mentalità borghese che sembra tanto aspramente criticare, e si mette a puntualizzare sulla rendita del marito, sull'eredità dei suoceri, sul fato benevolo che garantisce ai neosposini maggiore benessere di quello preventivato (poveri cari, non si poteva certo lasciare che la protagonista vivesse modestamente solo d'amore!).
Non si può comunque decontestualizzare quest'opera, dimenticandone il retroterra sociale e storico. Non esiste parola disincarnata e Jane Austen era pur sempre una signorina dello Hampshire di duecento anni fa. Ciò considerato, "Ragione e sentimento" dev'essere senza dubbio ritenuto una lettura importante e onestamente anche abbastanza piacevole (a me i languori dei salotti e gli struggimenti delle signorine inglesi danno l'orticaria, eppure sono sopravvissuta).
«"Lì, proprio lì" e indicò con la mano, "su quel monticello sporgente, lì caddi, e vidi Willoughby per la prima volta."
La sua voce si abbassò a quella parola, ma subito riprendendosi aggiunse:
"Grazie a Dio posso guardare quel punto con così poco dolore! Ne riparleremo ancora, Elinor" disse, esitante, "o sarà meglio di no?... Spero di poterne parlare adesso come si deve:"
Elinor la invitò teneramente ad aprirsi con lei.
"Quanto al rimpianto" disse Marianne "l'ho superato per ciò che lo riguarda. Non voglio parlarti di quello che sono stati i miei sentimenti verso di lui, ma di quello che sono adesso. Oggi, se potessi assicurarmi di una cosa sola, se mi fosse concesso di pensare che non ha rappresentato sempre una parte, che non mi ha ingannata sempre, ma, soprattutto, se potessi sentirmi sicura che non è stato mai tanto perfido come ho paura di averlo immaginato qualche volta [...]".»
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