Il Comandante Che Guevara non era solo un guerrigliero, né, come lo definirono, un libertador (titolo che comunque rifiutò, affermando che sono i popoli a liberarsi da soli). Studente di medicina, viaggiatore avventuroso ed instancabile, fotografo curioso, «poeta fallito» (come si definì nello scambio epistolare con León Felipe)... Era una persona poliedrica: audace e carismatico (quel che si dice un uomo d'azione) ma anche creativo e colto. Lettore insaziabile, tra le sue letture troviamo i «mattoni sovietici», i vangeli del partito comunista, Marx, Engels, Trockij, ma anche filosofi dialettici, materialisti e idealisti come Democrito, Leucippo, Hegel; i teorici del capitalismo come Marshal, Keynes e Schumpeter; e poi poeti e scrittori, su tutti Goethe e «Pablito» Neruda.
Leggeva e scriveva molto, oltre ad esprimere la propria vocazione artistica attraverso la fotografia (che peraltro, in alcuni momenti della sua vita, gli diede da vivere): variegati e curiosi i suoi scatti delle rovine incaiche di Palanque e Machu Picchu, dei paesaggi congolesi, tanzaniani e asiatici, i suoi diversi autoritratti.
Il libro "La storia sta per cominciare", oltre a una serie nutrita di epistole, carteggi e stralci delle sue diverse opere ("Notas de Viaje", "Otra Vez", "Guerra de guerrillas"), raccoglie alcuni brani poeticamente notevoli, che mettono in luce non solo l'intelligenza di Che Guevara (che emerge anche dai testi scarni di natura politica e dalla sagacia con cui di barcamenava tra giornalisti e intervistatori) ma la sua sensibilità artistica. Tra i racconti, "Il dubbio" (dall'impianto solidamente narrativo) e "Il cucciolo assassinato" (un episodio reale appena sviluppato). Il più pregevole, forse, è proprio "La pietra".
Scritto in Congo nel 1965, il racconto prende le mosse da una tragica telefonata. Il compagno Osmany Cienfuegos informa il Comandante che le condizioni della madre Celia sono gravi.
«Non mi nascose la preoccupazione o il dolore, ma io cercai di non mostrare né l'una né l'altro. Fu così facile!» Che Guevara riceve la notizia come un presagio, più funesta di quel che appare: crede sia una mossa preparatoria, cui seguirà l'annuncio della morte. «Non rimaneva che aspettare. Con l'arrivo della notizia ufficiale avrei deciso se avevo il diritto o meno di mostrare la mia tristezza. Ero propenso a pensare di no».
A ricevere la notizia funesta non è il figlio o l'uomo, non è il giovane Ernesto, ma è il Comandante. Immediatamente sorge la distrazione (pensare alle previsioni del tempo, la pioggia che cesserà presto e la siccità che seguirà) e prova a frapporsi tra Che Guevara e la notizia appena incassata. Lui la mette da parte, la relega nella parte più intima di sé, quella assolutamente invisibile ai suoi uomini. Si irrigidisce, si pietrifica, perché «il capo è impersonale; non che gli si neghi il diritto di provare dei sentimenti, semplicemente non deve mostrare che prova sentimenti suoi; quelli dei suoi soldati, forse». Per quanto la notizia sia sconvolgente, per quanto il dolore possa essere intenso, «Mi chiesi se si poteva piangere un po'. No, non si doveva».
Nella prima parte del racconto (il cui manoscritto occupava una decina di pagine di appunti disordinati) è questo il Che Guevara che si mostra al lettore.
Suscita ammirazione ma soprattutto soggezione. È un guerrigliero temprato dalla lotta, è un capo disposto e capace di farsi violenza nel modo più crudele (negando la propria umanità nel mettere a tacere la sofferenza filiale e il dolore del lutto incombente) pur di mostrarsi solido davanti ai propri uomini.
Che Guevara si impone una stoica aponia, e ancora si rifugia nella distrazione, fumando la pipa.
«Osservando i percorsi del fumo si può eliminare qualsiasi distanza, direi che addirittura si può credere ai propri piani e sognare la vittoria senza che sembri un sogno, ma solo una realtà che appare vaporosa per la distanza e le nebbie che avvolgono sempre i percorsi del fumo.»
Riflessioni sulla morte, sulla sopravvivenza specifica oltre la morte individuale, sul rapporto conflittuale che un figlio (suo figlio) potrebbe avere con la proiezione di un padre defunto con cui doversi misurare senza uno scambio reale. E poi un soldato, candidamente, interrompe il filo dei suoi pensieri.
«"Ha perso qualcosa?"
"Nulla." [...]
"E questa pietruzza? Ho visto che l'aveva nel portachiavi."
"Oh, cazzo."»
L'edificio di superficiale imperturbabilità si sfalda. L'insensibilità fittizia di Che Guevara si sfalda e frantuma di fronte all'eventualità di avere smarrito una pietruzza.
Ha tutte le cose necessarie con sé: l'inalatore (quella contro l'asma è una delle sue battaglie fin da piccolo), le penne, i taccuini, l'accendino, l'indispensabile pipa. Quanto agli oggetti futili ma dal grande valore simbolico, «in guerra avevo portato con me solo due piccoli ricordi; il fazzoletto di garza, di mia moglie, e il portachiavi con la pietra, di mia madre». Il timore di avere smarrito la pietruzza, un oggetto «di poco valore, ordinario» scaraventa il Comandante in quella parte di sé che aveva provato a rinnegare. Gli sbatte in faccia tutta la propria fragilità, lo turba, lo confonde.
«Che ne so. Davvero, non lo so. So solo che provo una necessità fisica di veder apparire mia madre e di piegare la testa nel suo grembo magro, e sentirle dire "mi viejo", con una tenerezza decisa e piena, e sentire la sua mano goffa tra i capelli».
Eppure, lo smarrimento dura solo un attimo. Qualcuno gli rivolge la parola, e Che Guevara chiude il racconto con la propria risposta: «sto aspettando che arrivi l'ordine per vedere se portano del trinciato come si deve. Uno avrà il diritto di fumarsi anche solo una pipa, tranquillo e con gusto, no?...»
Il Comandante ha ripreso il sopravvento, ma non prima che il lettore potesse scorgere la fragilità nascosta dietro la corazza impenetrabile di quello che si dice un eroe.
Il racconto "La pietra" ha la toccante profondità di una confessione intima e sincera: i sentimenti che Che Guevara non ha osato manifestare davanti ai suoi uomini e compagni, il lettore si sente privilegiato di essere chiamato a condividerli. Si instaura una comunione tenerissima con l'uomo nascosto dietro il Comandante e dietro il mito. "La pietra" non è solo un brano vivido e raffinato, ma è emblema della più profonda umanità: nostalgia, smarrimento, solitudine, bisogno di amore e di pace si conservano anche nel cuore del più violento guerrigliero. E commuove leggere la confessione di come anche il Comandante, solido e mitico, uno scoglio di audacia e spirito guerresco, il punto di riferimento degli uomini durante la battaglia, sia stato tanto segretamente vulnerabile da sognarsi bambino, il piccolo Ernesto, cullato e accarezzato dalla propria mamma.
Nessun commento:
Posta un commento