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domenica 16 settembre 2018

"La trilogia della città di K.", di Agota Kristof

Nell'intervista che Michele De Mieri le fece per l'Unità, alla domanda "Come ha cominciato a scrivere e cosa ha significato per lei il passaggio dalla sua lingua madre al francese?", Agota Kristof rispose: "Un mio personaggio, in Ieri, dice che è diventando assolutamente niente che si può diventare scrittori." È così che immagino la scrittura della Kristof: il porto sicuro dove rifugiarsi quando hai vissuto lo sradicamento. E lo sradicamento della Kristof è del tipo più angosciante che possa esistere: è il patimento di un esilio, l'abbandono della lingua madre e l'approdo indesiderato a una nuova lingua, il francese, la lingua che diventerà quella della sua scrittura letteraria. È un aspetto incredibilmente affascinante: la scrittrice si definisce analfabeta perché, pur scrivendo in francese, non raggiungerà mai quella padronanza della lingua che le permetterà una scrittura lineare e priva di errori. 
È una scrittrice che amo molto, forse perché Ieri è stato per me come un tuono a ciel sereno. Uno di quei libri da tenere in borsa, da leggere e rileggere perché, al contempo, bellissimi e tremendi. D'altronde, lo sappiamo, l'unheimlich (il perturbante) è ciò che ci perturba rimandando a qualcosa di familiare, rendendoci impotenti di fronte alla maestosità del sublime. E allora tuttò ciò che è doloroso diventa affascinante perché incomprensibile e misterioso, fatale ma familiare.
Alla fine degli anni Ottanta risale un altro libro bellissimo e tremendo della Kristof: Trilogia della città di K.
Le tre parti che la compongono, Il grande quaderno (1986), La prova (1988) e La terza menzogna (1991), sono tre momenti di un'unica storia: le avventure dei gemelli Lucas e Claus durante la guerra, in un villaggio con una collocazione non ben precisata. Sì, signori! Questo è un libro perturbante: è una terribile fiaba nera che catapulta il lettore in uno scenario ovattato, cupo, violento. Come ogni fiaba che si rispetti, i personaggi che animano questa storia sono personaggi dai tratti inverosimili. Emblematico il fatto che Lucas e Claus siano nomi anagrammati e che, solo a partire dalla seconda delle tre parti che compongono il libro, l'autrice dia nomi propri ai personaggi. Ne La prova, infatti, non c'è più il distacco narrativo per il quale, ne Il grande quaderno, i personaggi risultavano essere quasi spersonificati, dotati di caratteristiche stereotipate e genericamente chiamati con nomi comuni di persona: la nonna, l'attendente, la fantesca sembravano tarocchi posizionati come pedine ignare della propria sorte, ma indispensabili al gioco del mondo. Persino i narratori, i due gemelli, non facevano trasparire i benché minimi sentimenti: i fatti narrati, anche quando ripugnanti, venivano presentati da un punto di vista assolutamente super partes. Mi riferisco, ad esempio, alla morte del padre.

Domanda:
- È per stasera?
Diciamo:
- È per subito. Appena sarete pronto.
Dice:
- Siete matti? Mi rifiuto di passare questa frontiera di merda in pieno giorno! Ci vedranno.
Diciamo:
- Anche noi abbiamo bisogno di vedere, Padre. Solo le persone stupide cercano di passare la frontiera di notte. La notte, la frequenza delle pattuglie è moltiplicata per quattro e la zona è continuamente spazzata dai proiettori. Al contrario la sorveglianza è più debole verso le undici del mattino. Le guardie di frontiera pensano che nessuno sia così matto da cercare di passare in quel momento.
Padre dice:
- Avete perfettamente ragione. Mi fido di voi.
[...]
La pattuglia di allontana. Diciamo:
- Avanti, Padre. Abbiamo venti minuti prima dell'arrivo dell'altra pattuglia.
Padre prende le due assi sotto le braccia; avanza, posa una delle assi contro la barriera, sale.
Ci corichiamo pancia a terra dietro il grosso albero, ci tappiamo le orecchie con le mani, apriamo la bocca.
C'è un'esplosione.
Corriamo fino al reticolato con le altre due assi e il sacco di tela.
Nostro Padre è coricato vicino alla seconda barriera.
Sì, c'è un solo mezzo per attraversare la frontiera: consiste nel far passare qualcuno davanti a sé.
Prendendo il sacco di tela, camminando sulle tracce sei passi, poi sul corpo inerte di nostro Padre, uno di noi se ne va nell'altro paese.
Quello che resta torna in casa di Nonna.


L'oggettività agghiacciante della narrazione proietta il lettore in un mondo surreale, un mondo in cui ogni pedina rappresenta un insignificante ingranaggio di quel motore tetro che è la realtà.
Come già detto, è nella seconda parte, La prova, che i personaggi assumono tratti più "umani". 

- Si spieghi. L'ascolto. 
- Non so più come continuare a vivere.
Il curato si alza, prende il viso di Lucas fra le mani:
- Che le è successo, figlio mio?
Lucas scuote la testa:
- Non so dirle altro. È come una malattia. 
- Vedo. Una specie di malattia dell'anima. Dovuta alla sua fragile età, e forse anche a una solitudine troppo grande.
  
La narrazione, che diventa in terza persona, pur mantenendo la rigida e serrata impalcatura descrittiva della Kristof, lascia trasparire la psicologia dei personaggi, per dare vita a quello che definirei un riuscitissimo "chiasmo compositivo", che scardina le stesse convenzioni della scrittura. Se al narratore interno della prima parte corrisponde una scrittura di stampo quasi giornalistico, al narratore esterno della seconda parte corrisponde una scrittura di tipo più intimistico.


Fuori, piove. Lucas entra in una terza osteria, chiede ancora un quartino. Quando comincia a suonare, le teste di voltano verso di lui, poi s'immergono di nuovo nei bicchieri. Qui la gente beve, ma non si parla. All'improvviso un uomo alto e forte, con una gamba amputata, si piazza al centro della sala, sotto l'unica spoglia lampadina e, appoggiandosi alle stampelle, intona un canto proibito. Lucas lo accompagna con l'armonica.Gli altri avventori vuotano rapidamente i loro bicchieri e, uno dopo l'altro, se ne vanno. Sul volto dell'uomo scorrono le lacrime ai due ultimi versi del canto: 


Questo popolo ha già espiato 
Il passato e l'avvenire.

D'altronde il crescendo della narrazione chiarifica e sviscera quello che potremmo definire il tema portante del romanzo: la solitudine. L'avvicendarsi di personaggi soli, lasciati ai confini del mondo, diventa quasi il motore del racconto: il drago della solitudine può essere sconfitto solo se ci si aggrappa ad una'altra solitudine. "Due solitudini si attraggono": il segreto per levigare il male di vivere si trova tutto in questa attrazione.
Morti che camminano. Sono questi i personaggi della Kristof. Lo stesso Claus (o Klaus, che dir si voglia), personaggio assente il cui eco rimbomba sempre vivido, è sospeso nel limbo dell'irrisolto. Personaggio chiave, è tutt'uno con Lucas: che sia un suo alterego o semplicemente quel fratello gemello a cui Lucas ha permesso il varco della frontiera, alla volta della grande città? Pochi ne riconoscono l'esistenza: "Uno che non esiste non può tornare", sentenzia Peter, il capo del partito.

Il bambino chiede:
- Lo scheletro di tuo fratello non l'hai conservato?
- Chi ti ha detto che avevo un fratello?
- Nessuno. Ho sentito che gli parlavi. Gli parli, e lui è ovunque e in nessun luogo, quindi è morto anche lui.
Lucas dice:
- No, non è morto. È partito per un altro paese. Tornerà.
- Come Yasmine. Anche lei tornerà.
- Sì, è la stessa cosa per mio fratello e per tua madre.
Il bambino dice:
- È la sola differenza tra i morti e quelli che sono partiti, vero? Quelli che non sono morti torneranno.
Lucas dice: 
- Ma come si fa a sapere se non sono morti durante la loro assenza?


Il distacco di Lucas dal fratello viene continuamente rievocato dalla scrittrice, che ripropone l'evento traumatico ora nelle parole di Clara, l'amante attempata di Lucas, ancora provata dall'esecuzione del marito Thomas; ora nelle parole di Victor, il malandato libraio cinquantenne che guarda dalla finestra il vicino di casa insonne, senza parlargli, e che poi strangola la sorella; ora nelle parole dell'insonne stesso; ora in quelle di Mathias, il bambino a cui Lucas ha dato asilo.


Lucas e il bambino dissodano il giardino trascurato da Victor. Il bambino indica un albero:
- Guarda quell'albero, Lucas, è tutto nero.
Lucas dice:
- È un albero morto. Bisognerà tagliarlo. Anche gli altri alberi perdono le foglie, ma quello lì è morto. 
Spesso, in mezzo alla notte, il bambino si sveglia, si precipita in camera di Lucas, si infila nel letto e, se Lucas non c'è, lo aspetta per raccontargli i suoi incubi. Lucas si corica accanto a lui, stringe a sé il piccolo corpo magro fino a quando il bambino non smette di tremare.
Il bambino racconta i suoi incubi, sempre gli stessi, che si ripetono e assillano regolarmente le sue notti. [...]
Il sogno più terribile è il sogno dell'albero morto, l'albero nero del giardino. Il bambino guarda l'albero e l'albero tende i rami scortecciati verso il bambino. L'albero dice: «Non sono più nient'altro che un albero morto, ma ti voglio bene come quando ero vivo. Vieni, piccolo mio, vieni tra le mie braccia». L'albero parla con la voce di Yasmine, il bambino si avvicina, e i rami morti e neri lo circondano e lo strangolano. 
Lucas recide l'albero morto, lo taglia a pezzi, ci fa un fuoco in giardino. Quando il fuoco si spegne, il bambino dice:
- Adesso, lei non è altro che un mucchio di cenere. 


Il romanzo appare come un meraviglioso calderone in cui Agota Kristof mescola gli ingredienti che hanno fatto la storia del proprio popolo: è storia di denuncia, di malinconica consapevolezza, di adesione ad una realtà ingrata, di immagini terrificanti, di quesiti irrisolti, di possessi e di verità. La cultura e la memoria si qualificano come ciò che permette non solo a Lucas, ma di riflesso alla stessa scrittrice, di mantenersi in vita: è solo glorificando la cultura e la storia del proprio popolo e della propria sofferenza che si può sopravvivere alle brutture della guerra, all'ansia e all'angoscia del prima e del poi. Se il tempo è questo mutamento del prima e del poi, la guerra ne sconvolge le direzioni, ne inarca gli spigoli. Ecco l'uomo insonne, intorpidito dallo stesso scorrere del tempo. Ed ecco perché Victor ne è affascinato: si palesa come l'emblema di una perdita. La perdita del tempo.

Che ne pensa, Lucas? Mia sorella che non vedo da dodici anni viene a trovarmi, e io aspetto con impazienza che se ne vada a letto per poter osservare tranquillamente l'insonne della casa di fronte perché, in verità, è la sola persona che mi interessi, benché ami mia sorella sopra ogni cosa. [...] Sono ossessionato da quel vecchio che apre la finestra alle dieci di sera e la richiude alle sette di mattina. Passa tutta la notte alla finestra. Dopo non so cosa faccia. Dorme, o ha un'altra stanza o una cucina in cui passa la giornata? Non lo vedo mai per strada, non lo vedo mai durante il giorno, non lo conosco e non ho mai chiesto niente a nessuno di lui. Lei è la prima persona a cui ne parlo. A cosa pensa tutta la notte, affacciato alla finestra? Come saperlo? Da mezzanotte, la strada è completamente vuota. Non può nemmeno chiedere l'ora ai passanti. Non lo può fare fin verso le sei, le sette di mattina. Ha veramente bisogno di sapere l'ora, possibile che non possieda un orologio o una sveglia? In questo caso, come fa ad affacciarsi alla finestra esattamente alle dieci di sera? 

L'uomo insonne una sveglia ce l'ha, ma chiede l'ora ai passanti. L'ora non gli interessa, è soltanto un modo per fare conversazione con la gente. È lui stesso a dichiararlo a Lucas. La scrittrice è bravissima in questo: fa delle ossessioni dei propri personaggi uno strabiliante strumento comunicativo, fino ad arrivare allo scioglimento dei nodi e, quindi, a La terza menzogna. La verità non è poi così tanto preferibile alla menzogna: il non detto, il detto che viene ignorato, la volontà che contrasta il dovere, la società che dice ciò che si deve e non si deve fare. È questa la realtà da cui i due gemelli hanno cercato, invano, di proteggersi, trascorrendo la vita a cercarsi per poi lasciarsi andare dopo essersi ritrovati. È la storia delle assenze: lasciare andare l'affetto della famiglia, l'amore della donna che si ama e la propria felicità in nome di una presunta necessità superiore. 


Alla fine di settembre incontro Antonia al cimitero. Finalmente ho trovato la tomba. Porto un mazzo di garofani bianchi, i fiori preferiti da mio padre. Sulla tomba c'è già posato in altro mazzo di fiori. Poso il mio accanto all'altro.

Sbucata da chissà dove, Antonia mi chiede:
- Sei venuto a casa nostra?
- Sì. La camera di Sarah è vuota. Dov'è?
Antonia dice:
- Dai miei genitori. Ti deve dimenticare. Pensava solo a te, voleva continuamente venirti a trovare. Da tua madre, in qualunque posto.
Dico:
- Anch'io penso continuamente a lei. Non posso vivere senza di lei, voglio vivere con lei, in qualunque posto, in qualunque modo.
Antonia mi prende tra le braccia:
- Siete fratello e sorella, non te lo dimenticare, Klaus. Non vi potete amare come vi siete amati. Non avrei mai dovuto prenderti con noi.
Dico:
- Fratello e sorella. Cosa importa? Non lo saprebbe mai nessuno. Abbiamo cognomi diversi.
- Non insistere, Klaus, non insistere. Dimentica Sarah.
Non rispondo niente, Antonia aggiunge:
- Aspetto un bambino. Mi sono risposata.
Dico:
- Amate un altro uomo, avete un'altra vita, perché continuate a venire qui?
- Non lo so. Forse per causa tua. Sei stato mio figlio per sette anni.
Dico:
- No, mai. Di madre ne ho una sola, quella con cui vivo adesso, quella che voi avete fatto impazzire. Per colpa vostra ho perduto mio padre, mio fratello, e adesso mi prendete anche la mia sorellina.
Antonia dice:
- Credimi, Klaus, mi dispiace di tutto questo. Non l'ho voluto io. Non potevo immaginarmi le conseguenze. Ho amato sinceramente tuo padre.
Dico:
- Allora dovreste capire il mio amore per Sarah.
- È un amore impossibile.
- Anche il vostro lo era. Bastava che ve ne andaste e dimenticaste mio padre prima che succedesse "la cosa". Non vi voglio più incontrare qui, Antonia. Non vi voglio più incontrare davanti alla tomba di mio padre.


Questo libro lascia l'amaro in bocca, ma lascia anche un retrogusto, quello della voglia di rivalsa. In fondo, il grande quaderno (che altro non è se non una raccolta di menzogne) rappresenta un passaggio del testimone, il simbolo dell'affetto che permane anche quando qualcuno va via. Bisogna terminare il racconto: con la menzogna o con la verità?

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