«Io vuless addiventà nu poc e vient
Pe trasì p’a forza rint ‘a bocca toia»
Si solleva il sipario e dal buio affiorano figure immobili e allineate, come davanti al plotone d'esecuzione. Sono vestite dei colori del sacrificio rituale: la veste bianca di un agnello immolato, le scarpe rosse come il sangue versato. Dodici vittime in abito da sposa.
I vestiti vaporosi, il pizzo e il raso bianco, emergendo in un chiaroscuro violento tra il nero inchiostro delle quinte e la luce brutale dei faretti, diventano immediatamente lugubri. Le spose rompono i ranghi, si mettono comode, in piedi o sedute, per formare un salotto ultraterreno: si scambiano racconti ed esperienze, sorridendosi incoraggianti, scherzando tra loro. Si tolgono la parola a vicenda, continuano l'una la storia dell'altra. Raccontano di vite diverse, lontane nel tempo e nello spazio, riunite in quel luogo dal più brutale dei comuni denominatori: una morte violenta per mano dell'uomo che diceva di amarle. Le tante storie si fondono in un'unica storia che viene raccontata a più voci.
L'abito da sposa perseguita le donne assassinate nell'aldilà, a ricordare loro che sono morte perché mogli, ingabbiate nelle stecche e nei pizzi del loro rigido ruolo di genere, spinto fino all'estrema, deforme conseguenza. L'abito è la maschera del ruolo, della funzione sociale di quelle donne ammazzate, del luogo nel mondo che era loro predestinato («Tu sei mia, sei nata per me» grida sul palco il marito violento) e dal quale non si sarebbe mai potute evadere se non lasciando, insieme, la vita stessa. Il bouquet che le spose stringono tra le mani per tutta la rappresentazione, invece, rimanda ad un momento preciso nel tempo: il giorno delle nozze. Il giorno della festa, carico di aspettative e tenerezza. Tra le mani delle morte ammazzate, il bouquet diventa un dettaglio amaro, quasi uno sfottò alla loro innocenza, un monito tardivo all'ingenuità felice con cui si sono affidate al loro destino di morte.
Le spose recitano scalze. Le scarpe rosso sangue vengono esposte sul bordo del palco, come le teste dei giustiziati medievali venivano esposte sulle picche. Le ragazze si riuniscono al centro del palco, inginocchiate e abbracciate a formare una campana, come a chiudere dentro il loro pudore. Le circondano, camminando piano con cadenza inesorabile, in cerchio, come squali, i loro mariti. Anche loro non sono che un unico marito: il prevaricatore, il violento umiliatore, l'omicida. Di bocca in bocca, quell'unica voce destinata alla Caina espone le sue ragioni: dei passi del Quinto Canto dell'Inferno. E mentre si racconta di Gianciotto che trafigge a morte la moglie adultera e il suo amante, i mariti camminano sul palco attorno alle spose rannicchiate, e le massacrano simbolicamente, le lapidano sotto una fitta sassaiola di caramelle, che sbattono sui corpi indifesi e sull'assito del palco.
Anche gli omicidi sono incastrati nel loro abito nuziale, nel loro ruolo millenario e patriarcale che quasi li costringe al delitto d'onore. Gli sposi, i maschi, stanno in piedi per tutta la rappresentazione: sono l'elemento verticale della composizione, incarnano il principio attivo e prevaricatore, la forza che modella la materia. Le spose si inginocchiano, si siedono, si sdraiano a terra, si rannicchiano. Indossando guanti di gomma strisciano sul palco, che è il lucido pavimento di un grattacielo di Dubai, per pulirlo come schiave di altri tempi. «Siamo le schiave della globalizzazione» spiega una delle spose col viso rivolto al pubblico mentre insieme alle compagne pulisce il pavimento inginocchiata, con il busto parallelo al palco, solo la testa sollevata per produrre la Parola. Sono spose sottomesse perfino nella postura, ridotte alla posizione orizzontale della massima passività, del sonno inerte, della morte. Sono la materia che si lascia manipolare e distruggere. Le schiave con i guanti di gomma incarnano la duplice sottomissione della donna povera, la subalterna tra i subalterni di cui parla la filosofa Gayatri Spivak. E se Spivak poneva la celebre domanda, "I subalterni possono parlare?", le spose sul palco danno la più amara delle risposte. Esse riescono a produrre la parola solo dopo morte, solo unendo i loro sacrifici umani in un racconto che ormai è corpo (massacrato), è storia, è vita consumata.
L'impotenza della parola precede e fonda il delitto. «Lo aveva detto a tutti che mi avrebbe uccisa» dice una delle spose. «Lo sapevano proprio tutti. Ma allora perché glielo hanno lasciato fare? Perché io gliel'ho lasciato fare?».
Per essere potente, la parola deve essere performativa. L'annuncio («Ho avuto l'annunciazione... come la Madonna!») di un delitto non serve ad impedirlo, la parola che informa può essere trascurata, ma non la parola che obbliga, non la parola che violenta e umilia. Il fidanzato che tutte le altre invidiavano, quello che sommergeva la donna di attenzioni e tenerezze, messaggi e chiamate a tutte le ore, diventa un oppressore, furioso se respinto, se la donna chiede qualche minuto per sé («per respirare, per pensare, per leggere, per andare al cesso, per annoiarmi»).
Le numerose personificazioni del compagno/oppressore scendono dal palco e si aggirano tra gli spettatori parlando al cellulare, in un climax ansioso e ansiogeno, aggredendo verbalmente la donna, la fidanzata, la troia, che deve rispondergli, che deve rendergli conto di come si veste, di chi frequenta, del tempo che decide di non immolare a lui, di tenere per sé.
Lei frappone debole resistenza alla gelosia monomaniacale di lui, alla sua passione distruttrice («Vorrei mangiarti [...] Vorrei berti») che vuole inglobare dentro di sé l'oggetto amato (oggetto proprio perché totalmente abbandonato alla passività, e amato solo perché e fintantoché tale passività sussiste), annullandolo nella propria individualità, isolandolo da qualunque possibile esposizione al contagio libertario. L'eliminazione fisica della sposa non è che un'ultima fase di un processo violento fin nel suo primo dispiegarsi, non è che una forma di violenza distruttrice tra le tante che la sposa è costretta, nella passività oggettuale che le è propria, a subire.
Tra le donne/vittime e i mariti/carnefici c'è un personaggio che si pone al di là della rigida schematizzazione, che scavalca e scardina l'eteronormatività. Il personaggio cerniera, Thomas/Mary, non giunge tanto per conciliare i due poli della dialettica (che poi non è una vera dialettica, perché uno dei due poli è artificialmente annichilito a favore dell'altro, che riempie di sé l'intera relazione) quanto per fare saltare il tavolo. È lui/lei che spoglia le spose, le libera della loro gabbia di genere, spacca simbolicamente la rigidità dei ruoli assegnati, li rende eludibili, oggetto di scelta, spazio di libertà.
Dopo lo spettacolo "Lea - Nella pelle delle donne", "Vàsame - Il polline dei baci" (liberamente tratto da "Ferite a morte" di Serena Dandini) torna a mettere sotto i riflettori la questione della violenza di genere. Lo fa con sensibilità, creatività e grande potenza evocativa e suggestiva, grazie alla regia concettuale e pulita di Rocco Capri Chiumarulo e Anna Garofalo, il contributo della professoressa/tutor Monica Iusco, e la straordinaria interpretazione dei ragazzi e delle ragazze del Liceo Scientifico "G. Salvemini" di Bari.
Nessun commento:
Posta un commento