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sabato 12 novembre 2016

"Aelita" di Protazanov: comunisti su Marte!

Mancano tre anni all'apparizione in cartellone di "Metropolis", il kolossal fantascientifico per antonomasia dell'epoca del muto, quando viene proiettato per la prima volta "Aelita". Guardando il film sovietico sulla regina di Marte non può non venire in mente il "capolavoro" di Fritz Lang: per la figura femminile, carismatica e inquietante, per i costumi finto-egizi (o simil "Grande Babilonia"), per la grandiosità della messinscena, per l'angosciosa geometria delle rappresentazioni urbane e degli spigolosi arredi interni.
Sono trascorsi già alcuni anni dalla rivoluzione bolscevica dell'ottobre 1917, eppure "Aelita" non sembra portarne le tracce, salvo per le peculiari (e tecnicamente magistrali) caratteristiche del montaggio. Il film fantascientifico si colloca infatti nel 1924, lo stesso anno de "Il cineocchio" di Vertov e di "Sciopero!" dell'immenso Ėjzenštejn, ma è a entrambi imparagonabile, e difficilmente collocabile nei grandi filoni cinematografici del periodo. Le avanguardie culturali e artistiche sovietiche hanno già intrapreso la rivoluzione cinematografica, formale ma soprattutto teorica, che però non è giunta ancora a completa maturazione. A cavallo tra 1923 e 1924, vengono introdotte in Unione Sovietica le macchina da presa portatili senza treppiede, che spalancano nuovi orizzonti creativi ed esecutivi, mentre è già stato profondamente rinnovato il montaggio, nel suo aspetto tecnico-estetico come nella sua portata filosofico-politica. In "Aelita" vediamo una dimostrazione del "montaggio parallelo a contrasto", lo stesso che in "La fine di San Pietroburgo" di quattro anni più tardi spiega con una serrata alternanza di immagini l'essenza della guerra imperialista: soldati che cadono, azioni che salgono, feriti che strisciano, azionisti che comprano.
La portata innovativa di "Aelita" risiede dunque tutta nella sua struttura tecnica, più che formale, e nella grandiosità dell'apparato visivo "da botteghino" (oltre, banalmente, alla trama: è il primo film fantascientifico prodotto dall'URSS). Ma tolta la qualità materiale del prodotto, e tolto il suo valore storico-documentale, di "Aelita" non resta molto. Siamo lontanissimi dai capolavori del cinema "concettuale" sovietico, dalla teorizzazione del "senso cinematografico del mondo", del "vedo!" innovativo sul piano estetico-formale e sul piano storico-sociale capace di rendere il cinema sovietico una delle quattro più grandi scuole cinematografiche della storia.
Addirittura, a tratti "Aelita" ha un sapore quasi (mi si conceda il termine) "controrivoluzionario": l'immagine risente ancora molto della recitazione teatrale, soprattutto nelle scene al chiuso, che risultano molto cariche sulle espressioni facciali, sull'esasperata gestualità, sul trucco, e restituiscono un sapore espressionista; lo scenario, invece, non si discosta dalle tradizionali caratteristiche prerivoluzionarie. Los, sua moglie e la regina di Marte Aelita (che a tratti si sovrappongono in questa sorta di sogno/incubo "fantasentimentale") sono parte di un cast molto tradizionale, lontano dai "tipi" e dagli eroi-massa tipici del miglior cinema sovietico. D'altronde molto peso è conferito alla trama-narrazione, altro elemento, a rigore, "controrivoluzionario", nella misura in cui corrisponde ad una concezione individualistica del cinema e, soprattutto, alla finalità meramente ricreativa della proiezione. "Aelita" rientra, in una parola, in quel filone di film che oggi domina in maniera pressoché esclusiva (specie nel "mainstream"): quello della "fuga", della distrazione fine a se stessa, dell'assenza di ogni stimolo sociale e ideologico ("assenza" che, come i cinepanettoni ci hanno insegnato, si traduce normalmente nella "presenza" di una veste ideologica conservatrice).


La parentesi prossima al finale (sentimentale) del film, quella in cui un soldato sovietico arrivato sul pianeta rosso cerca di rovesciare la monarchia di Aelita incoraggiando i suoi sudditi a istituire l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche di Marte, non smentisce la lettura "apolitica" del film, poiché risulta non solo forzosa e disomogenea rispetto alla trama, ma prende perfino le sembianze di un semplice spot celebrativo (chissà, forse finalizzato ad evitare le fondate accuse di "vuoto formalismo" che sarebbero potute arrivare).
Con "Aelita", il cinema sovietico si dimostra all'altezza delle più pompose produzioni occidentali, dei canoni tradizionali dei più riusciti "scenari emotivi" e insieme della novità rappresentata dagli elementi fantascientifici (le scenografie e i fondali hanno un sapore perfino futuristico, e richiamano alla memoria certi manifesti della Rosta firmati Majakovskij). Si dimostra, insomma, capace di precorrere i tempi e i modi del cinema, pure nelle sue forme meno "rivoluzionarie" e rappresentative.

venerdì 4 novembre 2016

AAA Cercasi. Il gioco linguistico degli annunci di lavoro

Una delle principali attività di noi giovani disoccupati – purtroppo siamo un gruppo ben nutrito – è quella di cercare un lavoro. Diversi sono i canali, le piattaforme di ricerca. Una delle principali è internet: numerosissimi sono i siti che pubblicano annunci di lavoro, e noi impieghiamo molto del nostro tempo a leggere le diverse offerte, cercando di capire se non sono delle truffe, se fanno al caso nostro, se abbiamo i requisiti per poterci candidare. Diverse sono le analisi e le valutazioni che facciamo nell’impegnativa, faticosa e tediosa lettura delle moltitudini di offerte e proposte che vagano per il web. In questo post vorrei tentare un tipo di analisi diversa: un’analisi del linguaggio degli annunci di lavoro, della terminologia, cercando di dare un senso complessivo a questo inafferrabile, liquido “gioco linguistico”. Navigando su internet ci imbattiamo in un’infinità di annunci diversi, che però a mio avviso presentano delle costanti. Isolerò alcuni dei sostantivi e degli aggettivi che mi sembrano particolarmente emblematici e di cui, con una veloce ricerca, potrete verificarne l’onnipresenza.

OFFERTA 1: Operatore telefonico. Requisiti:
  • -          Buone capacità relazionali e comunicative
  • -          Forte predisposizione a lavorare in team e al guadagno
  • -          Capacità di ascolto e di gestione del colloquio telefonico
  • -          Capacità di convincimento
  • -          Attitudini all’attività di vendita
  • -          Massima serietà
  • -          Solarità, dinamicità e tenacia


OFFERTA 2: Addetto alle vendite
  • -          Spiccate capacità relazionali e di leadership
  • -          Flessibilità
  • -          Predisposizione al lavoro in team
  • -          Attitudine al problem solving
  • -          Determinazione al raggiungimento degli obiettivi
  • -          Creatività
  • -          Orientamento al cliente
  • -          Doti organizzative e di pianificazione


OFFERTA 3: Risorse Umane
  • -          Familiarità con i più moderni supporti informatici
  • -          Propensione al lavoro in team
  • -          Precisione, professionalità, affidabilità
  • -          Riservatezza
  • -          Flessibilità, proattività, assertività
  • -          Ottima capacità relazionale
  • -          Livello inglese buono/autonomo


Provando a fare un’analisi di questi tre annunci , la prima cosa che mi colpisce è la loro sostanziale omogeneità: non soltanto per quanto riguarda il modello di scrittura utilizzato, il che è comprensibile, ma anche riguardo ai contenuti. Sono tre offerte diverse, che riguardano tre differenti lavori, eppure sono richieste più o meno le stesse “competenze”. Scrivo competenze tra virgolette perché non mi sembra che si richieda una determinata preparazione, quanto piuttosto determinati atteggiamenti psicologici: ad un operatore telefonico non si chiede la conoscenza della lingua italiana ( che ingenuamente mi sembra l’unica competenza di cui il candidato dovrebbe essere dotato), ma la “flessibilità”, la “capacità relazionale”, “solarità, dinamicità e tenacia”. Al venditore viene richiesta la capacità di “leadership” e all’addetto alle risorse umane viene richiesta la “proattività” e l’ “assertività”. Questi annunci non ti chiedono di saper fare alcune cose, ma di essere in un certo modo. Ti chiedono di aderire ad un modello comportamentale che è considerato adeguato alla mansione da svolgere. Un modello astratto, che vale per ogni lavoro, più o meno qualificato: prima di capire quali sono le tue competenze è importante capire se puoi essere ciò che noi ti chiediamo di essere.

Ma chi dobbiamo essere? Qual è il modello, il “tipo”, che emerge dagli aggettivi e dai sostantivi impiegati in questi annunci? Per tentare una risposta a questa domanda dobbiamo cercare di capire cosa questi vocaboli significano, a quale mondo, a quale contesto si riferiscono. Dobbiamo cercare di riportare queste parole fluttuanti e disincarnate al concreto mondo del lavoro, nella sua complessità e drammaticità. Cosa significa, ad esempio, “flessibilità”? Il termine flessibilità fa parte del lessico del mondo del lavoro da un po’ di tempo: in una società post-capitalistica o post-industriale il lavoro è diventato “flessibile” e dobbiamo accogliere questo cambiamento con realismo. Non è più possibile, si dice, svolgere il medesimo lavoro dalla maggiore età alla pensione, nella stessa azienda, con la stessa mansione. Bisogna essere “flessibili”! Adattarsi all’idea di cambiare lavoro, azienda, mansione, località di residenza. Essere “dinamici”, disposti a spostarci continuamente da un impiego all’altro, senza sosta, per tutta la vita. “Flessibilità” significa per i lavoratori incertezza, precarietà, impossibilità di accumulare esperienze, di crescere. Un continuo e frustrante dover ricominciare sempre daccapo. La flessibilità, per chi la subisce, altro non è che rassegnazione alla precarietà.

Questo lavoratore che non nutre alcuna premura per il tipo di contratto che gli viene proposto dal datore (il tipo flessibile) deve anche essere dotato di una personalità “assertiva”. Non sono una psicologa, quindi non mi addentrerò in una maldestra spiegazione delle caratteristiche di questo modello comportamentale. Voglio concentrarmi sul significato concreto che, a mio avviso, questo termine assume in un contesto lavorativo. Il giudizio assertorio è quello che attesta un dato di fatto: «È così» o «Non è così».  In un contesto lavorativo è dunque richiesto che il lavoratore sia in grado di affermare o negare determinati dati di fatto, che sia capace di convincere gli altri della veridicità delle sue asserzioni e che, partendo da queste, possa approntare determinate strategie (“proattività”, capacità di “problem solving”). Quale spazio riserva una personalità assertiva alle domande? Ai dubbi? Qual è il suo senso della possibilità? La sua capacità di giudizio etico o estetico?  Il datore non richiede queste “competenze”: non è necessario che il lavoratore sia incline a porsi dei dubbi, a formulare giudizi diversi da quelli assertori, a muovere delle critiche o sollevare delle obiezioni. Non sono richieste queste capacità razionali, o forse, è richiesto che non si sia dotati di tali capacità.

Nel 1955 Herbert Marcuse scriveva in Eros e Civiltà che il principio di realtà teorizzato da Freud si è trasformato, nella società di massa tecnologizzata, in principio di prestazione. Aderire al senso di realtà significa ignorare le proprie inclinazioni, reprimere il principio di piacere, per far sì che il comportamento adottato quotidianamente sia conforme a quello che la società ci chiede. Non sono ammesse personalità eccentriche, deboli, dubbiose, insicure, fantasiose perché tendono a disperdere le energie, a non incanalarle nell’obiettivo stabilito, mettendo in discussione l’obiettivo stesso.  Il principio di prestazione si concretizza negli annunci di lavoro, nei colloqui in cui ti chiedono «Quali sono le tue ambizioni?» - come se fosse scontato, se non d’obbligo, avere delle ambizioni – indagando la tua psiche, i tuoi desideri, piuttosto che le tue competenze. Il principio di prestazione ha organizzato il modello cui tutti dobbiamo aderire completamente, pena l’esclusione dal mondo del lavoro, con tutta la frustrazione e il senso di inadeguatezza che tale esclusione comporta.

Vorrei concludere questo post con una mia personale offerta di Non-lavoro, un umile invito a liberarsi dall'opprimente angoscia causata dal sacrificio ( di sé, del proprio tempo, delle proprie energie) che il lavoro richiede, a chi ce l'ha e a chi lo cerca. Un invito a dare sfogo a tutte le capacità e ai desideri che continuamente siamo costretti a soffocare. 

AAA Cercasi perdigiorno. Requisiti:
  • -          Inflessibilità
  • -          Assoluta ignoranza dell’inglese e del pacchetto Office
  • -          Senso di inadeguatezza
  • -          Incapacità di leadership
  • -          Immaginazione
  • -          Radicale tendenza al dubbio, alla domanda e alla critica
  • -          Dispersione delle proprie energie
  • -          Totale mancanza di senso della realtà