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martedì 19 maggio 2015

"La psicologia del male" di Piero Bocchiaro

«Sono davvero poche le persone che, in quanto "cattive", compiono il male in maniera deliberata perché amano farlo. Nella stragrande maggioranza dei casi, la violenza estrema origina da normali processi psicologici ed è perpetrata da individui comuni in circostanze straordinarie».

Questo è l'assunto di partenza del libro di Piero Bocchiaro: non si tratta, naturalmente, di una mera opinione di stampo buonista o con generici intenti assolutori. Si tratta di un approccio psicologico suffragato da numerose prove di laboratorio e illustrato dall'autore riccamente e in modo accessibile a noi profani della materia: in sintesi, Bocchiaro ci mette in guardia dalla facile dicotomia buoni/cattivi (quindi dal tradizionale approccio disposizionale) e ci invita piuttosto a cercare una spiegazione di tipo situazionale per le azioni malvagie.
Un simile invito sembra piuttosto fondato dal momento che, per esempio, agli studiosi risulta che non oltre il 10% delle SS poteva essere considerato "anormale" secondo i criteri clinici convenzionali.
L'approccio di tipo situazionale di cui ci parla Bocchiaro accentua i fattori della situazione rispetto a quelli caratteriali degli agenti: in pratica, nel determinare una condotta cattiva o buona in una situazione eccezionale pesano di più alcuni fattori situazionali e contestuali (la presenza di molti astanti, l'avere a che fare con sconosciuti, l'avere fretta, l'essere in dubbio sulla gravità della situazione, l'agire in gruppo, l'avere un'autorità di riferimento) della mera "bontà" o "cattiveria" dei soggetti in questione.

«Sembra allora che la malvagità non sia appannaggio esclusivo di individui devianti o pazzi, ma che chiunque possa infierire contro un altro essere umano».

 L'idea è che chiunque in determinate condizioni sarebbe portato ad agire in un determinato modo: la letteratura ci fornisce esempi commoventi, dal buon Jean Valjean de I miserabili che ruba per necessità alla prostituta dell'Antologia di Spoon River che diventa tale perché tutti la ritengono una poco di buono. Analizzando casi di male più "estremo" (quindi non trattando di mera illegalità o di devianza da una norma sociale, bensì di atti propriamente crudeli) approdiamo al modello arendtiano della banalità del male.

Il primo tra i casi analizzati da Bocchiaro è, per l'appunto, il caso Eichmann. Come inviata del New Yorker, nel 1961 Hannah Arendt si recò a Gerusalemme per seguire il processo contro Adolf Eichmann, uno dei maggiori responsabili dell'Olocausto, colui che si era occupato della deportazione delle vittime nei campi di sterminio. I capi di imputazione erano crimini contro il popolo ebraico e crimini contro l'umanità. Chi non lo avesse conosciuto personalmente avrebbe facilmente potuto immaginarlo come un mostro, un sanguinario, un violento antisemita. La realtà era molto diversa, stupì Hannah Arendt e riecheggia nel libro di Bocchiaro e nei numerosi esperimenti che, dal 1961 in poi, furono ideati (a partire dallo psicologo Stanley Milgram) per verificare sperimentalmente la "banalità del male": Eichmann era una persona banale, un uomo medio, perfino dimesso, semplicemente diligente nel suo lavoro.
La Arendt subì un grave linciaggio mediatico per aver espresso lucidamente la propria intuizione, che da molti fu interpretata come una prova di indulgenza verso Eichmann, come un tentativo di sminuire la gravità delle sue azioni. Il punto non era affatto questo: affermare la banalità del male non vuol dire scagionare chi commette il male stesso, ma che chiunque di noi potrebbe commetterlo allo stesso modo. Non è una deresponsabilizzazione dei colpevoli ma, al contrario, una distribuzione della resposabilità su tutti: chiunque può rendersi responsabile di un'azione cattiva (o di una inazione, che spesso è la stessa cosa) e perché ciò accada non serve particolare crudeltà, ma possono bastare debolezza di carattere, incapacità di agire in modo anticonformistico, scarsa intelligenza, indolenza, ottusa obbedienza. Da Arendt e da Bocchiaro impariamo che le azioni più crudeli possono essere commesse da un grigio burocrate.
La dicotomia agnelli/capri a cui la tradizione ci ha abituati è più comoda di questa complessa fenomenologia, perché permette una facile identificazione dei cattivi (con la conseguente collocazione di noi stessi, di solito, tra i buoni). Questa attribuzione dei ruoli di cattivo e di buono in base a disposizioni caratteriali (o perfino genetiche) alla psicologia sociale appare però semplicistica, riduttiva dei meccanismi psicologici e sociali che entrano in funzione ogni volta che un uomo si trova a fronteggiare un dilemma morale (senza magari rendersene conto). L'approccio situazionista racconta una storia diversa, «una storia basata su numeri, evidenze sperimentali che assottigliano lo scarto tra buoni e cattivi fino ad annullarlo del tutto».
Il possibile equivoco è lo stesso che compromise la posizione di Hannah Arendt nel 1961: «Siamo destinati allora a soccombere allo strapotere delle forze situazionali?». Ossia: siamo non responsabili delle nostre azioni e del male che commettiamo?
La risposta di Zimbardo e Bocchiaro è no. Non siamo mere vittime delle circostanze e lo testimonia quell'esigua percentuale di soggetti che, in laboratorio come nella vita reale, riesce «a resistere in contesti dove un insieme di forze orienta al male», talvolta mettendo in atto vere e proprie condotte eroiche (il riferimento di Bocchiaro è un anti-Eichmann, Giorgio Perlasca, che non si peritò di correre gravi rischi per far sfuggire all'Olocausto oltre cinquemila ebrei ungheresi).
Resistere al male si può, ma per riuscirci non occorre essere "buoni": a fare la differenza, spesso, sono il sangue freddo e la tempestività (intervenire o passare oltre? Rimandare e aspettare che intervengano altri?), autonomia di giudizio e capacità di disobbedire ad ordini ingiusti (i membri delle SS processati a Norimberga si difesero dicendo di aver solo obbedito agli ordini), conoscenza dei meccanismi sorprendenti che regolano la nostra condotta in situazioni eccezionali o in gruppo.
Può essere socialmente utile conoscere questi meccanismi (deferenza irriflessiva, conformismo, diffusione della responsabilità, attribuzione di colpa alla vittima e molti altri) e accettare che possano influenzare la nostra condotta. Sottraendoci all'ottimismo illusorio che nutre la nostra convinzione di essere sempre migliori degli altri, superiori alla media (in una parola, di essere buoni) rimane una lucida vigilanza sull'influenza che le forze situazionali possono avere sulle nostre azioni. Vigilanza che, nondimeno, con estrema facilità può essere accantonata dagli automatismi che sono fortemente radicati in noi, a causa del nostro amor proprio e dell'ideologia dominante che da sempre informa la nostra vita e il nostro pensiero. Ne vediamo un esempio nell'identificazione dei criminali con i "cattivi" in base ad un fondamento di natura genetica, essenziale o ontologica: un modo con cui il sistema si deresponsabilizza, negando le proprie eventuali colpe nell'aver generato dei criminali, come a dire che, essendo semplicemente cattivi (per natura), lo sarebbero stati in ogni caso.
Il libro di Bocchiaro, percorrendo gustosi aneddoti sperimentali e analizzando casi celebri e controversi (il già citato caso Eichmann, ma anche la strage dell'Heysel, l'omicidio di Kitty Genovese, le torture perpetrate nella prigione di Abu Ghraib), ci invita a un doppio cambiamento: da un lato, ad applicare la "carità attribuzionale" (cioè a «non partire attribuendo all'agente la colpa dell'atto ma piuttosto, caritatevolmente, indagando per prima cosa la scena, alla ricerca di determinanti situazionali dell'atto», spiega Zimbardo), perché comprendere può essere più utile che biasimare; dall'altro lato, a scollarci da dosso l'etichetta di "buoni" per essere meno boriosi e più lucidi, per sforzarci di agire "bene" di situazione in situazione.

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