Su di noi

martedì 19 maggio 2015

"La psicologia del male" di Piero Bocchiaro

«Sono davvero poche le persone che, in quanto "cattive", compiono il male in maniera deliberata perché amano farlo. Nella stragrande maggioranza dei casi, la violenza estrema origina da normali processi psicologici ed è perpetrata da individui comuni in circostanze straordinarie».

Questo è l'assunto di partenza del libro di Piero Bocchiaro: non si tratta, naturalmente, di una mera opinione di stampo buonista o con generici intenti assolutori. Si tratta di un approccio psicologico suffragato da numerose prove di laboratorio e illustrato dall'autore riccamente e in modo accessibile a noi profani della materia: in sintesi, Bocchiaro ci mette in guardia dalla facile dicotomia buoni/cattivi (quindi dal tradizionale approccio disposizionale) e ci invita piuttosto a cercare una spiegazione di tipo situazionale per le azioni malvagie.
Un simile invito sembra piuttosto fondato dal momento che, per esempio, agli studiosi risulta che non oltre il 10% delle SS poteva essere considerato "anormale" secondo i criteri clinici convenzionali.
L'approccio di tipo situazionale di cui ci parla Bocchiaro accentua i fattori della situazione rispetto a quelli caratteriali degli agenti: in pratica, nel determinare una condotta cattiva o buona in una situazione eccezionale pesano di più alcuni fattori situazionali e contestuali (la presenza di molti astanti, l'avere a che fare con sconosciuti, l'avere fretta, l'essere in dubbio sulla gravità della situazione, l'agire in gruppo, l'avere un'autorità di riferimento) della mera "bontà" o "cattiveria" dei soggetti in questione.

«Sembra allora che la malvagità non sia appannaggio esclusivo di individui devianti o pazzi, ma che chiunque possa infierire contro un altro essere umano».

 L'idea è che chiunque in determinate condizioni sarebbe portato ad agire in un determinato modo: la letteratura ci fornisce esempi commoventi, dal buon Jean Valjean de I miserabili che ruba per necessità alla prostituta dell'Antologia di Spoon River che diventa tale perché tutti la ritengono una poco di buono. Analizzando casi di male più "estremo" (quindi non trattando di mera illegalità o di devianza da una norma sociale, bensì di atti propriamente crudeli) approdiamo al modello arendtiano della banalità del male.

Il primo tra i casi analizzati da Bocchiaro è, per l'appunto, il caso Eichmann. Come inviata del New Yorker, nel 1961 Hannah Arendt si recò a Gerusalemme per seguire il processo contro Adolf Eichmann, uno dei maggiori responsabili dell'Olocausto, colui che si era occupato della deportazione delle vittime nei campi di sterminio. I capi di imputazione erano crimini contro il popolo ebraico e crimini contro l'umanità. Chi non lo avesse conosciuto personalmente avrebbe facilmente potuto immaginarlo come un mostro, un sanguinario, un violento antisemita. La realtà era molto diversa, stupì Hannah Arendt e riecheggia nel libro di Bocchiaro e nei numerosi esperimenti che, dal 1961 in poi, furono ideati (a partire dallo psicologo Stanley Milgram) per verificare sperimentalmente la "banalità del male": Eichmann era una persona banale, un uomo medio, perfino dimesso, semplicemente diligente nel suo lavoro.
La Arendt subì un grave linciaggio mediatico per aver espresso lucidamente la propria intuizione, che da molti fu interpretata come una prova di indulgenza verso Eichmann, come un tentativo di sminuire la gravità delle sue azioni. Il punto non era affatto questo: affermare la banalità del male non vuol dire scagionare chi commette il male stesso, ma che chiunque di noi potrebbe commetterlo allo stesso modo. Non è una deresponsabilizzazione dei colpevoli ma, al contrario, una distribuzione della resposabilità su tutti: chiunque può rendersi responsabile di un'azione cattiva (o di una inazione, che spesso è la stessa cosa) e perché ciò accada non serve particolare crudeltà, ma possono bastare debolezza di carattere, incapacità di agire in modo anticonformistico, scarsa intelligenza, indolenza, ottusa obbedienza. Da Arendt e da Bocchiaro impariamo che le azioni più crudeli possono essere commesse da un grigio burocrate.
La dicotomia agnelli/capri a cui la tradizione ci ha abituati è più comoda di questa complessa fenomenologia, perché permette una facile identificazione dei cattivi (con la conseguente collocazione di noi stessi, di solito, tra i buoni). Questa attribuzione dei ruoli di cattivo e di buono in base a disposizioni caratteriali (o perfino genetiche) alla psicologia sociale appare però semplicistica, riduttiva dei meccanismi psicologici e sociali che entrano in funzione ogni volta che un uomo si trova a fronteggiare un dilemma morale (senza magari rendersene conto). L'approccio situazionista racconta una storia diversa, «una storia basata su numeri, evidenze sperimentali che assottigliano lo scarto tra buoni e cattivi fino ad annullarlo del tutto».
Il possibile equivoco è lo stesso che compromise la posizione di Hannah Arendt nel 1961: «Siamo destinati allora a soccombere allo strapotere delle forze situazionali?». Ossia: siamo non responsabili delle nostre azioni e del male che commettiamo?
La risposta di Zimbardo e Bocchiaro è no. Non siamo mere vittime delle circostanze e lo testimonia quell'esigua percentuale di soggetti che, in laboratorio come nella vita reale, riesce «a resistere in contesti dove un insieme di forze orienta al male», talvolta mettendo in atto vere e proprie condotte eroiche (il riferimento di Bocchiaro è un anti-Eichmann, Giorgio Perlasca, che non si peritò di correre gravi rischi per far sfuggire all'Olocausto oltre cinquemila ebrei ungheresi).
Resistere al male si può, ma per riuscirci non occorre essere "buoni": a fare la differenza, spesso, sono il sangue freddo e la tempestività (intervenire o passare oltre? Rimandare e aspettare che intervengano altri?), autonomia di giudizio e capacità di disobbedire ad ordini ingiusti (i membri delle SS processati a Norimberga si difesero dicendo di aver solo obbedito agli ordini), conoscenza dei meccanismi sorprendenti che regolano la nostra condotta in situazioni eccezionali o in gruppo.
Può essere socialmente utile conoscere questi meccanismi (deferenza irriflessiva, conformismo, diffusione della responsabilità, attribuzione di colpa alla vittima e molti altri) e accettare che possano influenzare la nostra condotta. Sottraendoci all'ottimismo illusorio che nutre la nostra convinzione di essere sempre migliori degli altri, superiori alla media (in una parola, di essere buoni) rimane una lucida vigilanza sull'influenza che le forze situazionali possono avere sulle nostre azioni. Vigilanza che, nondimeno, con estrema facilità può essere accantonata dagli automatismi che sono fortemente radicati in noi, a causa del nostro amor proprio e dell'ideologia dominante che da sempre informa la nostra vita e il nostro pensiero. Ne vediamo un esempio nell'identificazione dei criminali con i "cattivi" in base ad un fondamento di natura genetica, essenziale o ontologica: un modo con cui il sistema si deresponsabilizza, negando le proprie eventuali colpe nell'aver generato dei criminali, come a dire che, essendo semplicemente cattivi (per natura), lo sarebbero stati in ogni caso.
Il libro di Bocchiaro, percorrendo gustosi aneddoti sperimentali e analizzando casi celebri e controversi (il già citato caso Eichmann, ma anche la strage dell'Heysel, l'omicidio di Kitty Genovese, le torture perpetrate nella prigione di Abu Ghraib), ci invita a un doppio cambiamento: da un lato, ad applicare la "carità attribuzionale" (cioè a «non partire attribuendo all'agente la colpa dell'atto ma piuttosto, caritatevolmente, indagando per prima cosa la scena, alla ricerca di determinanti situazionali dell'atto», spiega Zimbardo), perché comprendere può essere più utile che biasimare; dall'altro lato, a scollarci da dosso l'etichetta di "buoni" per essere meno boriosi e più lucidi, per sforzarci di agire "bene" di situazione in situazione.

martedì 5 maggio 2015

Storie di "quotidiana" follia: un piccolo viaggio nel mondo dei quotidiani nazionali

In questo post vorrei compiere un piccolo viaggio nel mondo dei quotidiani nazionali, prendendo in considerazione un frammento di questo mondo intricato e spesso difficile da comprendere, il mondo dell’informazione. Vorrei analizzare un evento, il modo in cui è stato raccontato, cercando di far emergere le implicazioni politiche, ideologiche, che sempre sono in gioco quando si narra qualcosa, quando si cerca di esporre un “fatto” così come si è verificato. I quotidiani che ho scelto, l’evento che ho scelto, limitano fortemente questo tipo di riflessione, che richiederebbe una pazienza e una conoscenza che io non ho, e perciò mi scuso anticipatamente. Se però ho avvertito l’esigenza di fare questo tipo di riflessione, e di esporla alla vostra attenzione, è perché ritengo che non basta semplicemente leggere, ascoltare, ricevere passivamente le informazioni, ma confrontarle, elaborarle, riflettere sulle questioni per cercare di capire qualcosa del nostro presente. In un mondo in cui l’informazione è ben organizzata, amministrata, in cui riceviamo le notizie anche contro la nostra volontà, non basta essere “informati”. Essere informati significa cogliere la complessità dei messaggi che riceviamo, i quali sono sempre più e sempre meno della “cosa” che ci viene trasmessa attraverso il messaggio.

Fatta questa premessa, l’evento che ho scelto è l’incontro tenutosi ad aprile tra Barack Obama e Matteo Renzi. I quotidiani presi in considerazione sono “la Repubblica”, il “Corriere della sera”, “il manifesto” e “Il Fatto Quotidiano”, in particolare ho scelto gli articoli on-line, di facile reperibilità.
Comincerò dai primi due quotidiani citati. Titolo di “Repubblica” del 17 aprile: «Casa Bianca, Obama a Renzi: “Impressionato dalle tue riforme”. Il premier: “Usa nostro modello”». Segue l’articolo in cui si procede con una descrizione dettagliata dei gesti e delle battute che i due leader si scambiano: Renzi porta in dono una bottiglia di vino toscano, Obama dice “Farò rapporto su questo vino!”, grasse risate, strette di mano vigorose, sguardi d’intesa e bacetti volanti, Obama che dichiara di sentirsi italiano perché gli piace il cibo. L’incontro prosegue all’insegna della cordialità, ma qui riporto la citazione perché ne vale la pena:

L'uscita di scena dalla sala della conferenza stampa, ancora all'insegna della cordialità. Barack Obama e Matteo Renzi si sono stretti con vigore la mano. Mentre raggiungevano la sala da pranzo, il presidente Usa ha accompagnato il premier italiano con una mano sulla spalla.

Se giocassimo a sostituire i nomi di Obama e Renzi con quelli di Hitler e Mussolini otterremmo un bel cinegiornale degli anni Trenta!
Ma tra baci e abbracci, strette di mano e bottiglie di vino, si presuppone che i due presidenti si siano anche scomodati a parlare delle questioni politiche fondamentali. “Repubblica” provvede ad illuminarci: Grecia. La Grecia deve rispettare i patti e pagare i debiti, inoltre deve realizzare le riforme richieste dall’Europa: riduzione della burocrazia e flessibilità (le parole d’ordine del governo Renzi? Ma che strana coincidenza…); Iran. L’Iran deve continuare a pagare le sanzioni finché non sarà ratificato l’accordo sul nucleare; Libia. Bisogna fermare il vergognoso traffico di migranti e far sì che il Mediterraneo non sia più un cimitero, ma questo non si può fare soltanto con i droni (magari facendo resuscitare Gheddafi). E infine Expo. E qui abbiamo la ripetizione della pantomima sul vino che occupa i tre quarti dell’articolo sull’incontro. Fine delle trasmissioni.
Il “Corriere” non si distingue particolarmente nel tono della narrazione. Ci si concentra soprattutto sull’atteggiamento dei due Presidenti, sulla loro stima reciproca, sul loro forte e imperituro sodalizio. Obama è innamorato dell’energia di Renzi. Si sa che l’energia è una delle categorie fondamentali per costruire delle partnership internazionali solide e costruttive, che è il motore fondamentale della politica estera! Ecco a voi alcune righe per dare l’idea del tono dell’articolo:
Un premier dinamico che vuole le riforme: inizia con una sfilza di complimenti la conferenza stampa congiunta tra il presidente Usa Barack Obama e il premier Renzi, in visita alla Casa Bianca. L’ex sindaco ha impressionato Obama «per l’energia» profusa nell’azione politica.
Dopo aver analizzato questa “sfilza di complimenti”, vorrei sottoporre alla vostra attenzione un altro articolo di “Repubblica”, decisamente più sottile. Titolo del 19 aprile: «La confidenza di Renzi ad Obama: “Pse, nuovo nome, non socialista, ma democratico”». Il ragionamento è più o meno questo: Renzi, il grande rottamatore della vecchia e immobile classe dirigente, ha un sogno. Cambiare il nome del Partito Socialista Europeo, avvicinandosi ai democratici d’oltreoceano. Renzi è stato colui che ha fatto sì che il PD entrasse a far parte dell’internazionale socialista, segno del suo approccio “post-ideologico”. Un tempo, tra i vecchi “Pterodattili”(sto citando letteralmente) dell’Ulivo e dei DS si discuteva se entrare o meno a far parte di questa grande comunità politica. Adesso la mossa successiva sarebbe quella di avvicinarsi agli Americani, dopo essere divenuti parte integrante del socialismo europeo. Ma, ahimè, il passo non è consequenziale: i dinosauri del socialismo francese e tedesco sono restii a questo passo. Una formalità o una questione di qualità? La questione è anche economica. Stando a quello che dice Repubblica, infatti, se i nomi corrispondono alle cose, come diceva Giustiniano (anche qui sto citando letteralmente l’articolo), cambiare il nome del Pse in “Pde”ci avvicinerebbe agli Usa (nostro modello, non dimentichiamolo) sia politicamente, in vista della candidatura di Hillary Clinton, sia economicamente. In che senso? Tra Usa e Ue c’è in corso una trattativa che riguarda il Ttip, “Transatlantic trade and investiment partnership”, un trattato commerciale che prevede l’abolizione dei dazi doganali ed una sostanziale omogeneizzazione dei sistemi economici. Dunque, riassumendo, il cambiamento del nome del Partito Socialista Europeo in Democratico, comporterebbe un avvicinamento “post-ideologico” alla politica economica degli Stati Uniti. Renzi sarebbe una delle punte di spicco di questo processo di rottamazione dei vecchi dinosauri socialisti europei, ancorati alle proprie “storie lunghe e onuste di gloria”.
Vorrei esporre altri due punti di vista sull’argomento, quello del “manifesto” e del “Fatto Quotidiano”, tentando poi di tirare le somme. Titolo del “Fatto” del 17 aprile: «Renzi alla Casa Bianca. Obama: “La Grecia prenda decisioni dure. Sì a flessibilità”». Niente vino, né battute di spirito o pacche sulla spalla, il problema immediatamente posto all’attenzione dei lettori è la questione della Grecia, la sua lotta contro la politica dell’austerità imposta dall’Europa. Dopo di che, si procede ad una carrellata delle questioni affrontate: l’Iran, la Libia, l’Ucraina, il Ttip.

Barack Obama, nella conferenza stampa alla Casa Bianca al termine dell’incontro col presidente del Consiglio, punta il dito sulla Grecia, che deve “iniziare a prendere decisioni dure”. (La sottolineatura è mia)

Titolo del “manifesto”, sempre del 17 aprile: «Renzi va a caccia di droni». La tesi dell’articolo è questa: Renzi ha un grande problema in Libia, e in particolar modo ce l’ha in Italia, con un’opinione pubblica ostile alle “ondate migratorie” degli ultimi tempi. Per risolverlo deve bloccare il flusso in Libia, impedire che questi poveri migranti siano oggetto di speculazione dei trafficanti, i quali devono essere fermati e puniti prima che arrivino in Italia. Per bloccare il flusso in Libia servono le armi, in particolare i droni, oggetto della caccia di Renzi. Ma cosa può dare Renzi in cambio? Innanzitutto, le truppe italiane dislocate in Afghanistan, il cui ritiro era previsto per settembre, resteranno lì fino a data da destinarsi. In secondo luogo, Renzi promette di imprimere una svolta per la ratifica definitiva del trattato commerciale con gli Stati Uniti.
Per Renzi, il 2015 sarà anche un anno «di svolta per il Ttip», l’accordo di libero scam­bio tra Ue e Usa con­tro cui si mobi­li­tano i movi­menti sociali con­tro il neo­li­be­ri­smo: «È un grande obiet­tivo — ha detto il pre­mier — come governo stiamo spin­gendo con grande deter­mi­na­zione». Le riforme? Una strada aperta «agli inve­sti­tori Usa che ora tro­vano in Ita­lia un mer­cato del lavoro più flessibile».


Gli articoli riportati sono evidentemente diversi fra loro. Ogni giornale ha la sua linea editoriale, dà la sua impostazione politica agli eventi narrati. Che non sia possibile descrivere un fatto così come accade “in sé”, a prescindere dalla prospettiva del narratore, è una banalità. Vorrei perciò tentare un’ulteriore distinzione. Vorrei distinguere, da un lato il tono del quotidiano “Repubblica”, e quello degli ultimi due quotidiani presi in considerazione. La differenza è che, mentre il “manifesto” e il “Fatto Quotidiano” narrano un evento a seconda della loro prospettiva politica, rivolgendosi alla sensibilità dei proprio lettori, “Repubblica” porta avanti una propaganda insopportabile. Evidentemente il “manifesto” è la voce più critica, è un giornale comunista e non potrebbe essere altrimenti: la critica nei confronti di una politica bellica e neoliberista è parte integrante di una critica al sistema, in cui i lettori di sinistra si riconoscono e che condividono. Anche l’impostazione del “Fatto” è critica, e la sua collocazione politica è ben riconoscibile: questo quotidiano si rivolge a lettori che sono sensibili alle questioni della politica europea, critici nei confronti della politica dell’austerità, vicini ai cosiddetti movimenti euroscettici. Le impostazioni di questi quotidiani sono riconoscibili, sappiamo che abbiamo di fronte una certa interpretazione della realtà, che muove da presupposti politici ben precisi.
Ma “Repubblica” è tutta un’altra storia. A mio parere non si può parlare, in questo caso, di una ben determinata e riconoscibile impostazione politica della narrazione dell’evento, ma di propaganda. Per quali ragioni? Negli articoli presi in considerazione ci si concentra non tanto sulle questioni politiche affrontate dai due leader, quanto sul loro atteggiamento esteriore: lo scambio di battute, le pacche sulla spalla, le strette di mano. Ciò su cui ci si concentra è la descrizione dei personaggi, la “parata” del potere: due grandi uomini si incontrano, e si piacciono. I problemi sui quali si discute sono affrontati superficialmente, con apparente “neutralità”. È questo l’aspetto che più mi ha colpita, soprattutto del primo articolo preso in analisi. È praticamente un collage delle battute che Obama e Renzi si sono scambiati. Più neutrale di così! Ma il modo in cui sono messi insieme, organizzati, proprio il fatto che il giornalista non abbia nessuna voce in capitolo rispetto a ciò che sta narrando, è ciò che desta più sospetto. Ed è ciò che mi ha dato l’impressione che si stesse descrivendo una parata, una patetica messa in scena, un teatrino del potere che noi lettori possiamo soltanto ammirare, come se stessimo guardando due star del cinema fare la sfilata al Festival di Venezia, vestiti elegantissimi e illuminati dai flash dei fotografi.
Il secondo articolo è anche peggio, ma ritengo che utilizzi un metodo leggermente diverso di propaganda: qui non c’è un semplice scambio di battute, anzi il giornalista argomenta facendo riferimento alla storia della sinistra italiana (il dibattito tra DS e Ulivo, la questione dell’internazionale socialista). Sembrerebbe che si stia dunque analizzando la questione da un punto di vista politico, invece la si analizza dal punto di vista del potere, il che a mio parere, è diverso. Se il giornalista avesse sostenuto con argomentazioni più o meno condivisibili, ma comunque razionali, la bontà della rottamazione di Renzi a livello europeo, non avrei avuto nulla da ridire. Ma è forse un’argomentazione razionale sostenere che Renzi vuole rottamare gli Pterodattili del socialismo europeo? Il linguaggio utilizzato è quello di Matteo Renzi, utilizzato da quest’ultimo per fare propaganda: dunque, la definizione di propaganda in riferimento a quest’articolo mi sembra legittima. Categorie concettuali come vecchio/nuovo, post-ideologico, non sono categorie politiche, non costituiscono un punto di vista, se non quello dell’ideologia del potere. Se tutto questo sia legittimo, lo lascio giudicare a voi.
Concludendo, mi sento di fare una precisazione, banale ma forse anche dovuta: anche la mia è un’interpretazione, come avrebbe detto Friedrich Nietzsche. A seconda dei punti di vista, delle prospettive da cui si guarda un fenomeno, questo assume aspetti diversi. Ma ciò non vanifica il tentativo di discernere i vari punti di vista, poiché essere in grado di giudicare significa proprio questo, essere capaci di fare delle distinzioni. E allora aggiungo i link degli articoli presi in considerazione, in modo che possiate giudicare da voi stessi, e magari, rifiutare completamente la mia interpretazione.

http://www.repubblica.it/politica/2015/04/17/news/renzi_incontra_obama_alla_casa_bianca-112196446/

http://www.repubblica.it/politica/2015/04/19/news/la_confidenza_di_renzi_a_obama_pse_nuovo_nome_non_socialista_ma_democratico_-112307981/

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/17/renzi-incontra-obama-casa-bianca-presenti-kerry-vice-biden/1600978/

(Per consultare l'articolo del "manifesto" è necessario registrarsi sul sito)




sabato 2 maggio 2015

«Lei non verrà mutilata»: donne contro l'escissione, "Moolaadé" di Ousmane Sembène

«Padre, è facile picchiare un figlio. Ma l'era dei tiranni è finita per sempre.»

Un giorno, in un villaggio del Burkina Faso, sei bambine scappano dalla cerimonia che le vorrebbe protagoniste: l'escissione. Quattro di loro si rifugiano da Collè, una donna che la vita ha reso ribelle e refrattaria alle tradizioni. Come tutte le donne del villaggio, da bambina è stata escissa e questa mutilazione è costata la vita delle sue due prime figlie, entrambe vittime delle complicazioni del parto. Nel dare alla luce la sua terza figlia, Collè viene incisa lungo tutto l'addome, l'enorme cicatrice che le risale fin sotto il seno è il segno visibile del sacrificio della donna per la vita della propria piccola e allo stesso tempo un monito. Collè decide di sottrarre l'unica figlia sopravvissuta al parto, Amsatou, alla mutilazione rituale, e quando la ragazza ormai cresciuta lo rinfaccia alla madre, Collè si indica lo squarcio sul ventre.
Le quattro bambine scampate al rito si rifugiano proprio da Collè, l'unica donna che ha sottratto sua figlia all'escissione, che l'ha voluta bilakoro (senza purificazione, non escissa appunto). Vogliono essere protette come è stata protetta Amsatou, non vogliono essere "tagliate". Collè le riceve nella sua casa e tira sulla soglia una fune variopinta, segno del moolaadé che nessuno deve infrangere, il sacro divieto di prendere le bambine con la forza per privarle della protezione di cui sono investite. Il villaggio si scaglia contro Collè: da un lato, gli uomini che pretendono mogli escisse per i propri figli; dall'altro, le donne stesse, fedeli alla tradizione piuttosto che commosse dal pianto terrorizzato delle piccole. Anche Amsatou rinfaccia alla madre la disobbedienza che rischia di fare di lei, come delle bimbe che protegge, un'emarginata sociale: il suo promesso sposo, un giovane emigrato a Parigi e di ritorno al villaggio per prendere moglie, deve subire le pressioni del padre per prendere in sposa una cugina poco più che bambina, piuttosto che una disonorevole bilakoro.
Personaggi chiave sono le salindane, custodi della tradizione incaricate di imporre la ferita rituale alla nuova generazione; Mercenario, ex-soldato che ha viaggiato per il mondo e non accetta più che l'assenza dell'escissione sia marchio di infamia per una donna; Ciré, il marito di Collè, che rispetta la tempra di sua moglie e la sua volontà, che non vuole imporle l'escissione dell'unica figlia nè farle violenza, e per questo motivo viene dileggiato da suo fratello e istigato contro di lei.
"Moolaadé" è l'ultimo film diretto da Ousmane Sembène, trionfatore a Cannes nella sezione un Certain Reguard nel 2004. Con la storia della ribelle Collè ci saluta una delle più importanti figure della cultura africana contemporanea, scrittore e cineasta senegalese, nato in una famiglia di pescatori e letterato autodidatta, paladino dell'identità africana all'indomani del colonialismo, sensibile ai temi più cupi e delicati legati alla società del suo Paese. In "Moolaadé", Sembène affronta il tema delicatissimo della tradizione e in particolare di quella tradizione che cozza fortemente con il diritto universalmente riconosciuto alle donne di avere salvo il proprio corpo dalle mutilazioni. L'escissione (nelle sue varianti fino a quella più invasiva e traumatica, l'infibulazione) è una pratica tanto difficile da sradicare proprio perché fortemente culturale. L'identità culturale passa anche per i suoi riti e per le connotazioni comportamentali e fisiche dei membri del gruppo: proprio questo rende l'escissione refrattaria a sradicamento nonostante molte nazioni del mondo l'abbiano ormai dichiarata fuorilegge e punibile con l'arresto. Questo punto è messo in luce da Sembéne: l'escissione non è necessariamente imposta con la violenza alle donne, ma sono esse stesse talvolta a pretenderla per sé e per le proprie figlie, perché si fa così, si è sempre fatto così, perché gli uomini non sposano le bilakoro, perché quel segno sul corpo parla del proprio gruppo, della propria storia e della propria identità. Sono le stesse donne del villaggio a rivendicare le perpetrazione della violenza tradizionale, sono anche loro (e non solo gli uomini) a mettersi contro Collè, rivendicando l'appartenenza della bambine al gruppo, la loro identità etnica e culturale, mentre la protagonista rivendica delle piccole la libertà di non essere "tagliate", di fare ciò che desiderano del proprio corpo, piccolo ma non per questo impersonale. Istanze contrapposte e inconciliabili che Sembène racconta con un film delicato, semplice sul piano sia filmico che narrativo, quasi naïf, e anche per questo onesto ed efficace. La scenografia, che ha un rarissimo analogo in "Kirikù e la strega Karabà", è una relativa novità per lo spettatore occidentale e una affascinante finestra sull'Africa, da noi quasi sempre conosciuta nelle varianti cinematografiche (spesso invase di clichè) del villaggio perso nella savana pullulante di leoni e della baraccopoli abitata da sfortunati imitatori della società europea e americana.
Sembène attinge a piene mani da una materia difficilissima e prende una posizione di una chiarezza abbacinante, che però non pone la soluzione del problema ma ne inaugura lo sviluppo dialettico. In particolare, emerge la difficoltà di estirpare un'usanza quando non sia vista unanimamente come un male: nel film, l'escissione è rivendicata dai carnefici (materiali, ossia le salindane, e morali, gli uomini, difensori del modello familiare tradizionale, patriarcale e poligamico, e delle categorie valoriali che premiano nella donna qualità come sottomissione e purezza, quest'ultima attestata dalla mutilazione che viene richiesta dal matrimonio) quanto dalle vittime. Ma non tutte le donne soggiacciono a questa logica: «Collé, rendiamo onore alla tua resistenza» dice una di loro dopo che Collé riceve numerose frustate in pubblico per porre fine al moolaadé, senza per altro cedere. Di fronte alla crudezza degli eventi, le donne maturano un approccio più critico verso la pratica dell'escissione, verso i suoi costi e le sue implicazioni. Il modello positivo offerto da Collè si accompagna ad una presa di coscienza autonoma da parte delle altre e porta all'identificazione di crescita culturale e ribellione. È la radio a portare la varietà e la vastità del mondo nel piccolo villaggio senza acqua corrente, a fare sentire alle donne le parole del Grande Imam che smentiscono il nesso tra religione ed escissione (tra i pregi del film, l'aver posto l'attenzione su questo facile fraintendimento). La prima moglie di Ciré afferma che il loro problema (loro, delle donne) è di essere ignoranti. Le radio, simbolo dello sviluppo culturale e dell'apertura sull'alterità, vengono sequestrate e messe al rogo dagli anziani del villaggio quando le donne iniziano a mettere in discussione i dogmi della loro società.
La doppia inquadratura finale è in realtà l'attesa di un finale, l'inizio di un cammino ancora lungo da percorrere: all'uovo di struzzo che sormonta da sempre la moschea del villaggio si sostituisce una nuovissima e occidentale antenna televisiva. Il televisore è un dono portato da Parigi dal giovane progressista, che dopo un'iniziale soggiacenza al tradizionalismo paterno decide di sposare la bilakoro a cui era promesso (e lei, senza ancora sapere di questa decisione, lo ammonisce finalmente con fierezza di non essere escissa e di non volerlo mai essere). La lotta dialettica tra vecchio e nuovo, tra identità e apertura, tra violenza e diritto è complessa e ancora da scrivere.

«Lei non verrà mutilata. Nessuna bambina verrà più mutilata.»