Su di noi

lunedì 27 aprile 2015

"La fiammiferaia" di Aki Kaurismäki: una storia di alienazione

Il primo personaggio a entrare in scena è il lavorio serrato delle macchine: una sequenza lunga e silenziosa mostra il processo totalmente automatizzato che trasforma un tozzo e robusto tronco in fiammiferi. Vengono mostrate in sequenza le diverse macchine in azione, senza intervento d'uomo, e il processo appare non solo intelligente ma svolto intelligentemente, come pensato, dai macchinari privi di pensiero. La protagonista femminile entra in scena subito dopo, in una breve sequenza che mostra il suo lavoro, controllare che le etichette siano poste nel modo corretto sulle confezioni dei fiammiferi: l'impressione è che il suo lavoro sia più ottuso di quello svolto dalle macchine e che lei sia lì per servire il loro sferragliare produttivo e creativo. Infine, il protagonista maschile è un cinico, un uomo benestante che riserva alla donna la sensibilità e la considerazione che, in effetti, si potrebbero riservare a una macchina.

L'operaia si chiama Iris e sembra vivere tristemente: lavora in solitudine e silenzio (tenta di confidare le sue più gravi preoccupazioni ad un'altra operaia che con un "Davvero?" si allontana), sull'autobus che la porta in fabbrica legge un vacuo harmony che la distragga.
 Vive nella completa alienazione materiale: la sua paga mensile (secondo la legge del mercato, l'equivalente delle ore che ha venduto alla produzione di fiammiferi) passa dalle sue mani come da quelle di un intermediario disinteressato per finire in quelle del nullafacente patrigno e della gelida madre. Quando, in un giorno di paga, Iris decide di comprare un abito grazioso e rincasa con lo stipendio già decurtato di quella somma, il patrigno reagisce con rabbia, come se quel denaro non le fosse appartenuto affatto. La schiaffeggia («Puttana!») e sua moglie lo sostiene, bisbigliando alla ragazza che deve riportare immediatamente l'abito in negozio.

Ovviamente la giovane disobbedisce e grazie al nuovo look più femminile la sera stessa fa conquiste, introducendo nella storia già di per sé molto triste lo squallido protagonista maschile, Aarne, che ancora una volta farà di Iris una cosa, come lo è in fabbrica e nella sua stessa casa, nella quale non è assolutamente amata né trattata umanamente.
Riflesso dell'alienazione materiale di Iris, è la sua estraniazione dall'ambiente circostante: si rifugia nei rari momenti di alterità, negli sprazzi di distrazione/novità che scuotano o facciano per un po' sembrare più lontana la sua routine (il capriccio dell'abito nuovo, l'avventura sentimentale, la lettura del romanzo d'appendice). Il telegiornale trasmette le notizie più sconvolgenti, dai fatti di piazza Tienanmen ad un incidente fra treni che ha causato centinaia di morti, e lei sembra non avvedersene minimamente. Mentre sullo schermo si susseguono immagini drammatiche, Iris pensa alla serata imminente e già si sente, in un contrasto stridente, la musica del locale.



Presa dalle proprie piccole cose, Iris sembra portare a compimento la trasformazione che hanno iniziato ad operare su di lei il lavoro totalmente macchinale che non richiede alcuno sforzo intellettivo o creativo e i rapporti sociali ridotti a cinico sfruttamento (economico da parte dei genitori, sessuale da parte di Aarne), al kantiano usare gli altri come mezzo. La società alienata ha realizzato l'involuzione, il blasfemo regresso da Adamo a fango: la persona è diventata cosa. La vita inautentica che Iris è costretta a condurre le fa perdere ogni traccia residua di umanità, la precipita nel totale disinteresse per i centinaia di morti e feriti di cui parla il telegiornale, nel vuoto egoismo che ripone più interesse in un abito nuovo che nella vita delle altre persone, nel modo di vivere più opaco, privo di affetto per i propri cari, fino all'epilogo estremo.
 "La fiammiferaia" è la terza incursione di Kaurismäki nel mondo dei "perdenti", è la cupa esplorazione delle condizioni sociali che mettono a rischio l'umanità dell'uomo, costringendolo in un'esistenza indegna, in cui isolamento, concorrenza e cinismo impediscono all'uomo di riconoscere come persone (propriamente umane, portatrici di diritti, bisogni e sofferenze) gli altri ma anche se stesso.

sabato 25 aprile 2015

"I figli di Alcide non sono mai morti": i fratelli Cervi e la Liberazione

«Ma io scrivo ancora parole d'amore,
e anche questa è una lettera d'amore
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi,
non alle sette stelle dell'Orsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d'amore nel silenzio.

Non sapevano soldati, filosofi, poeti,
di questo umanesimo di razza contadina.
L'amore, la morte, in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.»

[Ai fratelli Cervi, alla loro Italia di Salvatore Quasimodo]

I fratelli Cervi non erano dirigenti del PCI in clandestinistà, né fini intellettuali, né antifascisti idealisti di ispirazione crociana. Erano contadini della Bassa padana, erano affittuari di un appezzamento a Olmo di Gattatico e lo lavoravano con i metodi più tradizionali e pesanti prima di potersi permettere un trattore. Il terzogenito Aldo risulterà il più istruito dei sette, avendo potuto apprendere non solo dal lavoro dei campi ma anche da quella che chiamerà "l'università della prigione" (dove sconta tre anni per errore ed eccesso di zelo, avendo ferito a un dito un tenente colonnello che non aveva risposto al chi va là). L'antifascismo che anima i sette maschi della figliata Cervi fino a costituirsi in banda e farsi eroi e martiti della Resistenza non passa solo per la lettura dei libri proibiti dal regime, che Aldo e i suoi fratelli leggono e riuniscono in biblioteca, esortando compagni e vicini a leggerne a loro volta. Passa anche per il loro essere brave persone, pronte a sacrificare la propria tranquillità domestica e bucolica per liberare gli italiani che "hanno dormito per diciotto anni", come afferma stizzito Aldo (Gian Maria Volonté) nella trasposizione cinematografica del libro in cui Alcide Cervi racconta la storia dei suoi sette figli, partigiani rastrellati e fucilati dai fascisti. Dal nonno Agostino Cervi che capeggiò la rivolta contro la tassa sul macinato del 1869, la "tradizione" di casa Cervi era quella di una come istintiva opposizione alla diseguaglianza sociale.
I fratelli Cervi non si fecero partigiani per il piacere di brandire fucili o darsi allo sciacallaggio, come i più ignoranti rinfacciano agli eroi della Resistenza. Di sette maschi, sei si fecero riformare (uno con la scusa di un'ernia, un altro riconoscendo il figlio di Aldo come suo e risultando così padre di famiglia numerosa): il rifiuto netto è per la guerra ingiusta e dannosa, che va ripudiata (come poi scriveranno i nostri Padri Costituenti). Non è certo la vigliaccheria a far tirare indietro i Cervi, che imbracceranno sì il fucile, ma per la causa che riterranno giusta e che costerà loro la vita. Le armi sono l'ultima scelta, quella che non si vorrebbe fare, ma che a volte è dolorosamente necessario fare. Sempre nel film diretto da Gianni Puccini, Aldo parla di quanto ha imparato in galera sui fascisti: «non bisogna mai dargli tregua, non fermarsi mai, fargli sempre sentire il peso della nostra presenza. Con il lavoro, con la parola, con le armi se necessario.»
Così si resiste: con il lavoro e le armi, e con la parola che passa per l'insegnamento, per l'impegno intellettuale oltre che morale, per la carta stampata (durante il regime, la carta proibita). Questa è la più grande lezione che i fratelli Cervi ci abbiano lasciato: che di fronte all'ingiustizia resistere si deve, anche se costa molto, anche se è spaventoso. E che per farlo bene occorre sapere, occorre scrollare gli altri dal sonno, bisogna accendere biblioteche come falò per illuminare, per diffondere la cultura, per fare strabuzzare gli occhi e scuotere dal torpore dell'indifferenza, dell'abulia da cui Antonio Gramsci ci ha messi in guardia:
 

«L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare

Che nessuno si consoli con la comoda scusa della propria indifferenza-innocenza, perché una simile categoria storica non esiste. Esiste il passivo lasciare fare, che è un consenso silenzioso. Ed esiste il consenso acritico, che non tace ma urla per coprire le voci dissenzienti, per coprire l'eco terrificante del suo vuoto, ottuso obbedire.

 Il film del 1968, "I sette fratelli Cervi", racconta la loro storia con sobrietà e naturalezza, senza nulla concedere ai fasti dell'epopea o ai toni eroici di una santificazione postuma. Della famiglia Cervi ci mostra la semplicità contadina e l'umanità, dalla vita sentimentale di Aldo alle preoccupazioni della mamma-chioccia Genoeffa (che poco dopo l'eccidio dei figli maschi muore di crepacuore). Aldo-Gian Maria Volontè si lascia accompagnare senza retorica nel percorso di maturazione della propria coscienza politica, di consolidamento dei propri ideali di giustizia sociale, che vanno dal cattolicesimo a cui rivendica l'appartenenza al Manifesto del partito comunista che legge in carcere.
Noi di Caratteri Vaganti vi consigliamo la visione di questo film per riscoprire e meglio ricordare un tassello della nostra storia. Papà Alcide Cervi, ricevuta una medaglia che lo raffigurava come una quercia con sette rami mozzati, disse che di questa quercia occorreva guardare il seme, che è l'ideale nella testa dell'uomo. A noi piace ricordare i fratelli Cervi, Duccio Galimberti, Felice Cascione e tutti gli altri che non vollero restare indifferenti, nella certezza che la memoria storica sappia dissodare il terreno su cui questo seme possa attecchire.

lunedì 20 aprile 2015

La fâlsafa medievale e la profezia, "perfezione della natura dell'uomo"

La filosofia araba medievale è caratterizzata da una singolare commistione di elementi neoplatonici, aristotelici e coranici. La filosofia di stampo greco, naturalmente, era vista con sospetto dai più rigidi ortodossi come dai mutakallimûn (teologi), che la identificavano con una bid'a (innovazione biasimevole, capace cioè di far degenerare la condizione spirituale di chi si accostasse a tali contenuti, che sarebbe stato contagiato dalla miscredenza) perché pagana. Sono i califfi della dinastia Abbaside non solo a sollecitare lo studio della filosofia greca (molte opere di Aristotele e altri importanti autori sono state tradotte dal greco in arabo, prima che ne esistessero edizioni in latino) e a fare fiorire la Bayt al-hikma ("casa della sapienza", la celebre accademia delle scienze), ma a guardare con benevolenza alla commistione tra l'autorità coranica e i metodi dimostrativi propri del discorso apodittico
(ossia del ragionamento filosofico). Questo perché la commistione tra islam e fâlsafa avrebbe dimostrato la liceità di quest'ultima sul piano religioso, la sua compatibilità con la religione. È stato questo a rendere possibile il fiorire delle scienze filosofiche nella dâr al-Islâm, cioè nelle vaste terre poste sotto l'egida dell'Emiro dei Credenti (che, ricordiamo, si espandevano all'epoca dall'Andalusia ai confini della Cina). Grazie alla rivalità dei califfi Abbasidi con il mondo bizantino, grazie al loro auspicio di ottenere il primato culturale oltre che militare sulla civiltà rivale, la filosofia ha prosperato a Baghdad dopo che le ultime scuole filosofiche della cristianità erano state chiuse dall'imperatore Giustiniano, per tornare poi da Baghdad arricchita di nuove preziose elaborazioni e di ricchi commentari, i più famosi dei quali dovuti all'andaluso Averroè.
falâsifa ci hanno lasciato preziose testimonianze della fertile commistione tra le verità rivelate e le categorie e i metodi aristotelici. Un esempio molto interessante è rappresentato dall'elaborazione filosofica in merito alla figura del profeta. Innanzitutto, nell'arabo si distingue il nabî (semplice "profeta" con missione di testimonianza) dal rasûl ("inviato", che possiede la profezia transitiva, ossia è incaricato da Dio di portare una Legge agli uomini). La stessa distinzione si opera nella teologia cristiana con le diciture di "causa instrumentale serva" (mero trasmettitore) e "causa instrumentale libera" (autore "inspirato" da Dio).
Un'ampia trattazione è stata riservata dai diversi autori dell'epoca al tema dell'identità del profeta, ossia alla difficile domanda: chi può essere profeta?
Mosè Maimonide, celebre medico, teologo e filosofo ebreo (nella filosofia araba rientrano anche le opere degli autori ebrei, purché scritte in arabo: quest'ultimo, anche nella variante giudeo-araba, era la ligua veicolare privilegiata delle scienze e delle arti), nella sua grande opera La guida dei perplessi si sofferma sulla cruciale domanda e passa in rassegna le possibili risposte.
Secondo i sostenitori della prima opinione, per lo più idolatri ma anche gente comune:

«non ha nessuna importanza che quell'individuo sia sapiente o ignorante, vecchio o giovane; però, pongono come condizione il fatto che egli abbia una certa bontà e correttezza di costumi, perché fino a questo momento la gente non ha mai detto che Dio abbia fatto un profeta di un uomo malvagio, a meno che non l'abbia prima trasformato in un uomo buono.» 

Maimonide conviene che alcuni passi scritturali sembrino suffragare tale opinione, ad esempio il passo: «Io effonderò il Mio spirito sopra ogni carne, e i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno» (Gioele 3,1). Ma Maimonide precisa che passi come quello citato si riferiscono in realtà ad un altro tipo (o grado) della profezia, accessibile non a tutti ma ad una rosa piuttosto ampia di individui: la forma profetica inferiore, rappresentata dai sogni veridici. Il sogno, infatti, è nei testi rabbinici: «il frutto acerbo della profezia».
La seconda opinione, sostenuta dai filosofi, afferma che «la profezia è una certa perfezione della natura dell'uomo»: prima di poter accedere al grado della profezia, un individuo deve sottoporsi ad un lungo esercizio che faccia passare all'atto quella perfezione che nella specie è sempre potenziale. Per profetizzare occorre la massima perfezione, anche temperamentale. Inoltre, è impossibile (scrive Maimonide) che un ignorante giunga a prefetizzare o che un uomo si svegli un mattino profeta, quando la sera prima non lo era. Un uomo profetizzerà necessariamente quando in lui le virtù etiche e dianoetiche avranno raggiunto la massima perfezione, accompagnate da una immacolata ed efficiente virtù immaginativa e da una naturale predisposizione. Secondo questa posizione, è impossibile che un uomo dotato di ogni perfezione faccia a meno di profetizzare, come è impossibile che un uomo imperfetto giunga al grado della visione profetica.
La terza opinione, quella sostenuta dalla Legge, è identica alla precedente salvo che per una cosa: l'intervento miracoloso di Dio può inibire anche il più perfetto degli uomini, quindi tra i possibili profeti saranno tali in atto solo quelli che Dio voglia che profetizzino.

È la seconda tra queste opinioni a gettare una luce particolarmente filosofica sul tema della profezia: essa non è (come implica invece la prima tesi, scartata come fallace da Maimonide) un evento straordinario alla stregua di un miracolo, ma una necessità legata alla perfezione dell'individuo e radicata nelle sue capacità intellettive, tra cui la facoltà di ricevere immagini intelligibili e trasmetterle (in forme più semplici, che il volgo possa capire o per lo meno rispettare). Avicenna afferma che il carattere specifico di ogni Legge rivelata è di «parlare a tutto il popolo» in modo facile (cosa che dà luogo ai casi di antropomorfismo, per cui alcuni credenti attribuiscono a Dio gli attributi umani cui le Scritture si riferiscono allegoricamente, occhi, mani, voce, o passioni umane o una collocazione spaziale, nei Cieli o in una qualche porzione dell'universo fisico). Per Al-Fârâbî, il profeta possiede delle virtù imprescindibili: chiarezza e lucidità di intelligenza (che anche i filosofi ottengono con esercizio e ascesi), potere di comandare la materia esterna al suo corpo (ossia la capacità di fare i miracoli) e perfezione della virtù immaginativa (flusso illuminativo dell'Intelletto Agente). Solo lui sa tradurre intelligibili molto difficili in immagini di facile comprensione (questa è la posizione del profetismo farabo-avicenniano).

Non si devono sottoporre le Verità nude e crude a chi non possiede quelle stesse virtù che ne permettono la comprensione ai profeti, a rischio di gettare i credenti nella perplessità e nella miscredenza (a questo tema è dedicata appunto La guida dei perplessi e posizioni del tutto analoghe sono sostenute da Avveroè, ad esempio nel Trattato decisivo). Al riguardo, Buhârî (grande raccoglitore di hadîth, ossia aneddoti e racconti su Maometto) riferisce che 'Alî B. Abû  Tâlib (cugino e genero del Profeta, nonché quarto califfo) avrebbe detto: «Parlate alla gente di quello che essa può comprendere; volete forse che Dio e il Suo Profeta siano accusati di menzogna?». Questa posizione corrisponde alla disciplina dell'arcano in Avicenna.
L'analisi della figura del profeta prende a prestito categorie e concetti aristotelici (in particolare in riferimento all'Intelletto Agente e a quello Potenziale) ma anche due elementi propri all'ermeneutica sacra (che è, per Averroè, prerogativa del filosofo): lo zâhir (il senso manifesto, letterale delle Scritture) e il bâtin (il senso recondito, nascosto, allegorico). Il problema ermeneutico diviene assolutamente centrale nella diatriba tra hashwiyya (letteralisti) e bâtiniyya (interioristi): Averroè cerca l'ideale di un metodo interpretativo scientifico che rispetti il più possibile il senso letterale.
Per finire, tornando all'identikit del profeta, una posizione filosoficamente meno rigorosa rispetto alle considerazioni sull'Intelletto Agente e i contenuti intelligibili, attribuisce a questa figura quattro virtù: la fedeltà (amâna), la veracità (sidq), la sagacia (fatâna) e l'autentica trasmissione del messaggio (tablîg). Infine, nel sufismo (corrente mistica dell'Islam), il profeta è un intermediario semi-divino, un anthropos celeste, splendente di quella «luce muhammadica eterna» da cui proviene tutto il creato.