«Ricorderemo il mondo per il cinema.»
Siglo ng pagluluwal, meglio noto fuori dalle Filippine come Century of birthing: la nascita è il macrotema che si dipana lungo sei ore, eteree e luminosissime, di bianco e nero. Due filoni narrativi, che poi sono la stessa storia, abbozzano con una china sottilissima tre disegni, tre forme diverse ed identiche della nascita. È un inno alla poiesi in ogni sua declinazione, al miracolo uno e trino, pienamente umano, della creazione.
Incontriamo il racconto del "twist" originario, il tornado primordiale che ha innescato il Big Bang: la creazione dall'informe, la fondazione dell'Essere del mondo. Lo racconta un predicatore paffuto ed esagitato, evidentemente un millantatore, che appartiene alla Casa di Padre Tiburcio (nome che, per una felice coincidenza, può rimandare ad un racconto nostrano sulla superstizione, il nome della strega Tiburzia di Brancaleone alle crociate), una chiesa isolata e folle che impone alle sue ragazze la verginità e uno stile di vita monacale. Se il messaggio è ridicolizzato dal suo portatore (il fotografo che deve subire il predicozzo sdrammatizza, alla ripetuta parola "twist", accennando qualche passo di danza che fa incazzare alquanto il sant'uomo), dall'ossessivo ed inutile ritornello che i fedeli non fanno che salmodiare, il riferimento all'Essere concreto, materiale del mondo è serio.
Incontriamo poi la vergine (l'ex-vergine) espulsa dalla Casa in seguito a uno stupro, che diventa portatrice della "birthing" del titolo: senza volontà, solo per essere stata parte del "tornado più antico del mondo", l'abbraccio tra la donna e l'uomo che genera la vita. Un'altra piccola creazione.
Incontriamo il racconto del "twist" originario, il tornado primordiale che ha innescato il Big Bang: la creazione dall'informe, la fondazione dell'Essere del mondo. Lo racconta un predicatore paffuto ed esagitato, evidentemente un millantatore, che appartiene alla Casa di Padre Tiburcio (nome che, per una felice coincidenza, può rimandare ad un racconto nostrano sulla superstizione, il nome della strega Tiburzia di Brancaleone alle crociate), una chiesa isolata e folle che impone alle sue ragazze la verginità e uno stile di vita monacale. Se il messaggio è ridicolizzato dal suo portatore (il fotografo che deve subire il predicozzo sdrammatizza, alla ripetuta parola "twist", accennando qualche passo di danza che fa incazzare alquanto il sant'uomo), dall'ossessivo ed inutile ritornello che i fedeli non fanno che salmodiare, il riferimento all'Essere concreto, materiale del mondo è serio.
Incontriamo poi la vergine (l'ex-vergine) espulsa dalla Casa in seguito a uno stupro, che diventa portatrice della "birthing" del titolo: senza volontà, solo per essere stata parte del "tornado più antico del mondo", l'abbraccio tra la donna e l'uomo che genera la vita. Un'altra piccola creazione.
Infine, incontriamo Homer, il regista protagonista, l'alter-ego di Lav Diaz: e non credo che porti per caso il nome del narratore per antonomasia, il più grande creatore di storie della nostra cultura (che la violenza occidentale ha imposto a tutto il mondo).
I tre disegni coincidono se messi in controluce. Il regista/artista è un narratore, è l'Omero che racconta le Odissee delle esperienze umane e le Iliadi dei percorsi storici, dal galeotto che cerca redenzione alla suora che cerca un'esperienza sessuale che la faccia sentire pienamente umana, alla storia delle Filippine martoriate costantemente sullo sfondo. Ma è anche il demiurgo, il Dio che crea i suoi universi da narrare: non si limita a riprodurre storie, ma le immagina, le anima, le produce (e questo è vero soprattutto per Lav Diaz, che dei propri film è sceneggiatore, regista, montatore e produttore). E infine è madre, perché trae la novità e la vita dal suo corpo, dalla sua carne, senza la possibilità di seminare e abbandonare: segue la gestazione del proprio creato/film/feto dall'istante del concepimento/intuizione/ispirazione al parto doloroso, nutrendo il processo con la propria energia anche fisica, fino a perdere il senno. Così la vergine stuprata diventa folle e si aggira per i campi agitando un ramoscello, urlando disperata "Arrivano i Giapponesi!", terrorizzata da quell'occupazione che ebbe luogo durante la Seconda Guerra Mondiale e che è troppo giovane per aver vissuto. Il regista la incontra, la prende per mano senza conoscerla, e insieme i due intonano il ritornello ossessivo: folli. E il parto, la creazione, la scintilla geniale dell'umano ingegno, scaturisce proprio dal turbinio fecondo della follia.
La scena del regista e del suo amico seduti a un tavolino, davanti ad una telecamera accesa, è semplice teoria del logos cinematografico. La pellicola e il file sono la casa dell'essere. Century of birthing è un manifesto: «Sto ancora cercando il cinema», Lav Diaz fa dire a Homer, ma la ricerca non è una immobile contemplazione, è una prassi. Dice ancora, dopo aver negato di poter circoscrivere verbalmente il cinema, di poterlo relegare nel regno delle parole: «Il cinema è la prassi. Il cinema è la mia ideologia.» E la sua natura è così distante dalla glorie passeggere e dai successi di botteghino da non avere davvero nulla a che spartirci: «Io non faccio film per i festival. Io faccio film per il cinema» dice Homer al telefono con un amico francese che cerca di imporgli una scadenza per partecipare alla manifestazione. E non ci stupisce riconoscere in Homer le tracce di Lav Diaz, unico possessore dei propri film e deciso propugnatore della loro libera circolazione in rete.
Homer/Diaz non può spiegare cosa sia il cinema, può solo farlo: il logos può essere vanamente sviscerato nel tentativo di spiegarlo (di togliergli le pieghe) oppure può incarnarsi nell'azione registica o artistica in generale. Il cinema non è parola vuota, maschera narrativa, sterile salmo pronunciato e ripetuto: è Essere.
Homer/Diaz non può spiegare cosa sia il cinema, può solo farlo: il logos può essere vanamente sviscerato nel tentativo di spiegarlo (di togliergli le pieghe) oppure può incarnarsi nell'azione registica o artistica in generale. Il cinema non è parola vuota, maschera narrativa, sterile salmo pronunciato e ripetuto: è Essere.
Homer/Diaz cita Heidegger, la sua domanda-pilastro: cosa sia l'essere.
«Being?», chiede. Il suo interlocutore gli risponde: «Art is being.»
Il cinema non riproduce l'essere, ma lo produce (lo è). Ha dignità autonoma, è più Creazione che Rivelazione, e meno ancora riproduzione del reale, umile racconto di ciò che è. E si disegna intorno il circolo di un culto, l'unico che possa essere praticato da un essere che ragiona. Mentre la setta di Padre Tiburcio è follia sterile (ripetitiva, non crea ma riproduce): la donna può farsi madre solo quando rinuncia a essere vergine (o è costretta a farlo). Quello del cinefilo, del regista, dal fruitore di cinema è un culto trasparente, che si avvita attorno all'Essere, che inneggia alla produzione (nel senso non economico del termine, ovviamente), alla nascita dell'arte/essere. Invece il culto fanatico che informa la Casa di Padre Tiburcio è tutt'altro che fecondo. «Padre Tiburcio è la verità. La Casa è la verità!» afferma con ottusa sicurezza una delle ragazze, e le sue parole sono gravate da tutta la pericolosità autoritaria di un dogma, che ha la sua forza nel tono affermativo e nel bando del punto di domanda, della feconda e produttiva incertezza (che invece anima Homer). Infatti è puntuale la risposta del fotografo: «Usa la tua testa! [...] Tutte le atrocità a cui assistiamo oggi sono la conseguenza dell'estremismo e del fondamentalismo. Il fondamentalismo e l'estremismo distruggeranno il mondo».
Mentre al regista/artista, alla terza persona della trinità creatrice, spetta il compito di costruirlo, di dargli forma. E l'interlocutore di Homer nella scena del tavolino esorta un po' lui, un po' Diaz, un po' tutti gli artisti ad andare avanti nonostante le difficoltà e le incomprensioni, di avere l'audacia di spremersi nella fatica del parto universale.
Mentre al regista/artista, alla terza persona della trinità creatrice, spetta il compito di costruirlo, di dargli forma. E l'interlocutore di Homer nella scena del tavolino esorta un po' lui, un po' Diaz, un po' tutti gli artisti ad andare avanti nonostante le difficoltà e le incomprensioni, di avere l'audacia di spremersi nella fatica del parto universale.
«Questa è la parola più abusata nell'arte. Sei presuntuoso se sei provocatorio. Sei presuntuoso se sei un radicale. Sei presuntuoso se sei un rivoluzionario. Sei presuntuoso se sei orgoglioso. Sei presuntuoso se sei modesto. Sei presuntuoso se sei fico. Sei presuntuoso se sei fuori moda. Sei presuntuoso se sei di sinistra. Sei presuntuoso se sei di destra. Sei presuntuoso se sei zen. Sei presuntuoso se sei un cristiano rinato. Sei presuntuoso se sei un artista. Amico, quella parola non ha più posto nell'arte!»
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