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domenica 1 dicembre 2013

"Orfeo nero" di Jean-Paul Sartre

«I volti neri, queste macchie di notte che ossessionano le nostre giornate, incarnano il lavoro oscuro della Negatività che rode con pazienza i concetti.»

Sartre scrive "Orfeo nero - Una lettura poetica della negritudine" nel 1948 come saggio puramente introduttivo. Scritto per corredare l'"Antologia della nuova poesia negra e malgascia di lingua francese" curata dal Léopold Senghor, all'Orfeo nero è stata oggi riconosciuta la dignità di un testo a sé e proprio come testo in sé concluso è degno di essere letto. Straordinariamente denso e poetico, Orfeo nero non è solo il manifesto del diritto dei popoli colonizzati di poter produrre e possedere una poesia propria, indipendente da quella dei colonizzatori bianchi; è anche l'analisi del valore filosofico della négritude all'interno di una concezione dialettica della storia.
Infatti, se la negritudine è una categoria controversa sul piano antropologico e in buona misura assimilabile ad una forma di razzismo camuffato ed ingenuo, privo di scientificità e teso alla conservazione delle differenze surretiziamente inventate per distinguere le due razze umane, la bianca e la nera, Sartre ha il grande merito di cogliere e mostrare il potente significato storico della negritudine. La parentesi culturale inaugurata da Aimé Césaire e Léopold Senghor è una fase quasi necessaria nello sviluppo dell'umanità e della sua coscienza: è il momento dialettico dell'antitesi.
Risparmio l'esposizione dell'ideologia dell'uomo bianco dominato dalla "ragione ellenica" e dei valori contrapposti, passionali e dionisiaci, nell'uomo nero. Il vero peso della negritudine è nascosto sotto queste incrostazioni contingenti e consiste nella distillazione del

carattere decostruttivo del linguaggio poetico. La poesia, in quanto tale, è la possibilità di ricercare un senso non-concettuale, di forgiare un'episteme non matematizzata, non ossificata. 

«La poesia è una camera oscura nella quale le parole si urtano nei loro giri folli. Collisione nell'aria: si illuminano a vicenda per i loro incendi e cadono in fiamme.»

La poesia è decostruzione, è collisione distruttiva da cui emerge un nuovo ed imprevedibile significato: la poesia nera è il concentrato di questa funzione, perché in seguito ai «cortocircuiti del linguaggio: dietro la caduta in fiamme delle parole intravediamo un grande idolo nero e muto».
La lingua poetica, che è la stessa lingua borghese dei dominatori, viene piegata e forzata per aderire ad uno spirito che non le è proprio, quello dei malgasci e dei neri che non possiedono più una lingua materna originaria. La poesia esplode in tutta la sua potenza di strumento emancipatore, autoidentificativo, autoaffermativo. La negazione contenuta nella poesia è in quanto tale mezzo di liberazione: l'aspetto privativo delle tenebre ne fonde il valore come libertà. Meglio ancora: il nero non è solo la privazione della luce, ma ne è il rifiuto, la distruzione. Vediamo così la decostruzione, la negazione intrinseca alla fase antitetica farsi puro atto rivoluzionario.
Il nero è il rivoluzionario perfetto e la poesia della negritudine è la sua presa di coscienza di essere il proletario del mondo. La coscienza di classe degli operai bianchi dei Paesi occidentali, tuttavia, è oggettiva, costituita scientificamente sulle tesi del plusvalore, della lotta di classe, del materialismo storico-dialettico. La presa di coscienza del nero, invece, è tutta interiore e soggettiva, ancora per via del suo carattere antitetico: non è materia di discorsi economici o tecnici, ma è fonte della poesia.
La negazione spiana la strada (o almeno questo è l'auspicio) ad una terza fase dialettica: quella della sintesi. Nella congiuntura mediana della negritudine, scrive Sartre, dobbiamo provare a negare la fase precedente «strappandoci di dosso le nostre maglie bianche per tentare semplicemente di essere uomini».
La negritudine, allora, non è mera affermazione del nero contro il bianco, ma una fase del processo che porterà all'annullamento delle distinzioni tra il nero e il bianco. L'Orfeo nero è il poeta che discende gli inferi in cerca di Euridice: è l'uomo che torna dall'esilio culturale in cui è stato costretto dalla colonizzazione, che torna ad affondare nelle tenebre per riappropriarsi di sé, della propria identità e della propria dignità, in vista di una sintesi futura di luce e buio.
I neri «non pretendono di essere poeti della notte, ossia della rivolta inutile e della disperazione: annunciano un'aurora».

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