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mercoledì 11 settembre 2013

Paradisi artificiali, Charles Baudelaire

Opera in prosa del celeberrimo poeta, Paradisi Artificiali è un interessante saggio sul consumo di vino, hashish ed oppio. Un saggio sul vizio, sulla debolezza dell'uomo, sui suoi limiti e contraddizioni. L'uomo è mortale, finito, legato indissolubilmente alla materia, limitato nelle percezioni, inibito nella volontà; eppure tende al sublime, al superamento di se stesso, del suo stesso corpo: è come se ci fosse una sproporzione tra la vista, il tatto, l'olfatto, il gusto, l'udito presi in senso assoluto, nella loro massima potenzialità, e gli organi di senso preposti a queste funzioni. La nostra anima vede e sente più di quanto possa fare il nostro corpo: il sublime è quel superamento, l'affermarsi dei sensi dell'anima sui sensi del corpo. Il sublime è il paradiso di Charles Baudelaire. L'alcol, le droghe, sono dei treni ad alta velocità che ci conducono nella terra merovigliosa e terribile del sublime, sono delle montagne russe che ci portano in vetta, e ci catapultano nell'abisso.
In questo saggio Baudelaire parla della sua esperienza personale e non solo, del rapporto tra droga e arte, dei paradisi artificiali, e di come questi possano trasformarsi in inferno.
La prima parte del saggio "Del vino e dell'hashish", oltre a decantare le gioie e i dolori del vino, mette a confronto i diversi "paradisi".
"Oh gioie profonde del vino, chi non vi ha conosciute? Chiunque abbia avuto un rimorso da placare, un ricordo da evocare, un dolore da annegare, o abbia fatto castelli in aria, tutti hanno finito per invocarti, o dio misterioso celato nelle fibre della vite. Quanto sono grandiosi gli spettacoli del vino, illuminati dal sole interiore! Quanto vera e ardente quella seconda giovinezza che l'uomo attinge da lui! Ma quanto temibili anche sono le sue folgoranti voluttà, e i suoi snervanti incantesimi. [...] Il vino assomiglia all'uomo: non si saprà mai fino a qual punto lo si possa stimare o disprezzare, amare o odiare, né di quali azioni sublimi o di quali mostruosi misfatti sia capace."
 Il vino è sangue che pulsa nelle vene, rinvigorisce la volontà, rende forti;  ha una sua "personalità", è amico e nemico dell'uomo, lotta con lui. Chi "beve solo latte" è in genere un uomo mediocre, superficiale, se non addirittura malvagio. Gli effetti del vino si legano con la personalità del bevitore, il vino scorre nelle profondità dell'anima, dà luce, e fa emergere le ombre.
Esclusivamente all'hashish è dedicata invece la seconda parte del saggio, "Il poema dell'hashish".
Rispetto alla parte dedicata al vino, il linguaggio è più freddo, oggettivo, tecnico. Se l'ebbrezza del vino è conosciuta da tutti, "il vino piace a tutti", l'hashish è poco conosciuta, quindi l'intento principale è quello di informare i lettori.
Si ripercorre la storia dell'hashish: gli effetti della canapa erano già conosciuti nell'antico Egitto, Marco Polo nel Milione narra di come il Veglio della Montagna, dopo averli inebriati con l'hashish, rinchiudesse i suoi discepoli in un giardino, per far conoscere loro il paradiso, ricompensarli di un'obbedienza assoluta e passiva; nell'Arabia felix, l'hashish era chiamata erba per antonomasia; Erodoto narra di come gli Sciti gettassero delle pietre roventi sui semi di canapa e ne aspirassero il vapore. Si elencano i diversi nomi di questa droga, in base alla composizione e all'area geografica di provenienza. Si racconta di episodi di contadini francesi, che dopo aver falciato la canapa, avvertivano strani sintomi, e persino del comportamento euforico delle galline che avevano mangiato i semi di questa pianta!
Minuziosa è la descrizione degli effetti e delle modalità d'uso (un secolo dopo, nel 1954, Aldous Huxley darà un'impostazione molto simile al suo saggio sugli effetti della mescalina, The doors of percepition, e nel 1998 Terry Gilliam girerà Paura e delirio a Las Vegas). L'hashish, a differenza del vino, inibisce la volontà, la capacità di muoversi, ma apre a delle esperienze percettive, sensoriali, assolutamente originali: le pupille si dilatano e i colori diventano sempre più nitidi, accesi. Dalle estremità, una sensazione di freddo pervade tutto il corpo, il quale si abbandona, la soggettività si annulla, fino a raggiungere uno stato di assoluta pace, felicità, che Baudelaire chiama dell'"Uomo-Dio": nirvana, atarassia, kief, è un'esperienza che espande l'anima oltre i confini del corpo, in una una unione panteistica, mistica, con il mondo. Gesti, esperienze quotidiane, assumono un volto magico, si riempiono di senso:
"La musica, altra lingua cara agli ignavi o alle menti profonde che cercano lo svago nella varietà del lavoro, vi parla di voi stessi e vi racconta il poema della vostra vita: s'incarna in voi, e voi vi infondete con lei. Essa parla della vostra passione, e non in modo vago e indefinito, come fa nelle serate svogliate quando ascoltate l'opera, ma in modo circostanziato, preciso: ogni movimento del ritmo evidenzia un movimento conosciuto della vostra anima, ogni nota si trasforma in una parola, e l'intero poema entra nel vostro cervello come un dizionario dotato di vita."
La terza e ultima parte del saggio, è il commento dell'opera di Thomas de Quincey, Confessioni di un mangiatore d'oppio: si descrivono le delizie provate inizialmente, il sempre più spasmodico bisogno di assumere la sostanza, fino alle torture della dipendenza. Si descrivono gli stati paranoici, gli incubi provocati dall'abuso di droga, il senso di impotenza nel non riuscire a liberarsi da queste catene; i tentativi di uscirne, la sofferenza, e infine la liberazione definitiva dal vizio.
Baudelaire condanna l'uso di hashish ed oppio, moralmente ed esteticamente.
Da un punto di vista estestico, l'uso di droga non agevola in nessun modo la produzione artistica, anzi l'esatto contrario; il poeta si scaglia contro gli "utilitaristi", i quali ritengono che attraverso l'uso di droga, si possa potenziare artificialmente l'estro artistico: "ammettiamo per un istante che l'hashish dia, o quanto meno aumenti la genialità; essi dimenticano che la natura propria dell'hashish è quella di diminuire la volontà; e così, esso concede con una mano ciò che toglie con l'altra, cioè l'immaginazione senza la facoltà di approfittarne". La condanna dell'uso di droga diventa elogio dell'arte, un'esaltazione della sua grandezza: l'arte è il paradiso naturale, è il sublime che rende liberi, la droga è l'illusione del sublime, dietro la quale si nasconde il volto delle tenebre.
Se Allen Ginsberg non avesse fatto uso di droga, avrebbe scritto L'Urlo? Senza uso di droga i Pink Floyd avrebbero composto brani come "Shine on you crazy diamonds"? E lo stesso Baudelaire, avrebbe scritto le sue poesie? La risposta del poeta è chiara: l'arte non è solo genialità e talento, ma è anche abnegazione, dedizione assoluta, ed è questa dedizione che porta al raggiungimento del sublime, quello autentico, della vera bellezza. Cercare una scorciatoia è inefficace, dannoso per la propria anima e immorale: "Chiamiamo baro il giocatore che ha escogitato il sistema per giocare a colpo sicuro; quale appellativo daremo all'uomo che intende acquistare, con un po' di denaro, la felicità e il genio?"
In questo saggio, Baudelaire affronta un problema spinoso, quello delle dipendenze e dei vizi, senza esaltazioni né moralismi retorici, ma con una profonda sensibilità poetica. Esorta a cercare l'inifinito nell'arte, nella cultura, che è ciò che rende davvero liberi, che eleva davvero l'anima umana. La droga, ha il vantaggio di darci tutto questo immediatamente, ma è un'illusione. Quando ci si sveglia dal sonno, ha inizio l'incubo. Quando il paradiso si dissolve in una nube di fumo, ha inizio l'inferno. Quando l'illusione della libertà scompare, ci si rende conto di essere schiavi di se stessi, soggiogati dalla propria dipendenza. Si annulla ogni possibile esperienza di senso, ogni moto dello spirito, che viene risucchiato dallo "Spirito delle Tenebre".
 

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