Premetto che fa piacere (fa-davvero-piacere) , spulciando nell'immenso profluvio editoriale che l'Italia produce ogni giorno, incappare in un autore che sia bravo. Parolina semplice ma polisemantica, il cui significato minimale è saper scrivere un Italiano corretto. Sicuramente, Stefano Saccinto supera questa soglia minimale e si colloca ben oltre.
La prosa di Saccinto non solo è impeccabile (salvo qualche localismo, sicuramente voluto e parte dello stile, e il gusto un po' troppo facile per il turpiloquio), ma è raffinatissima. In giro sul web ho trovato delle recensioni che mi avevano annunciato questo libro come un mattone di una pesantezza estrema, ma nego con decisione che sia così;dopo averlo letto in prima persona, capisco che un lettore abituato a letture più leggere possa trovare questo libro un po' ostico (questa frase sembra uno scioglilingua! Ehm, proseguiamo!).
Per quanto riguarda il contenuto, non posso dirmi altrettanto entusiasta.
E' il racconto (a dire il vero molto poco narrativo) della ricerca del significato di una vita che sembra essersi ormai arenata e inabissata, preda di un'estate afosa e smorta che induce il giovane protagonista a porsi con crescenti intensità e sconforto domande esistenziali apparentemente senza risposta. "Un'estate qui" racconta la rinascita di una identità autentica (che l'autore chiama "essenza") che riesca a scrollarsi di dosso l'apatia e i dubbi per tornare in quello stato di innocenza che l'umanità, o quanto meno il mondo occidentale, ha in gran parte perduto.
Ho gradito molto i voli pindarici sulla scia di Kurt Cobain e ho apprezzato i mille spunti di riflessione; ho gradito decisamente meno la facilità di alcune soluzioni e, soprattutto, la teologia spicciola che in questo libro davvero abbonda. Ho trovato irritanti questa teodicea da bar e i giudizi che l'autore dissemina con poca parsimonia. In una parola, ho trovato questo libro un po' saccente (a partire dal genere autobiografico, che in generale reputo la quintessenza della boria, per edificante che sia l'esperienza narrata e per illustre che ne sia il protagonista).
Questi i contro. I pro, tuttavia, sopravanzano decisamente le critiche che sia possibile muovere a questo libro. Tra i pro, la giovane età del protagonista (che all'epoca dei fatti aveva appena vent'anni), che dimostra senza dubbio una grande sensibilità e una spiccata capacità di riflessione.
Secondo il mio gusto personale, però, "Un'estate qui" tocca il suo apice nel capitolo XVI, in cui il testo, scremato dagli eccessi di filosofia esistenzialista e tristezza alla Cioran, spende in tutta la sua eleganza. E' un capitolo un po' più sgombro da quelle-belle-cose che criticavo sopra, ed è soprattutto un capitolo in cui vediamo esplodere il talento dell'autore, la straordinaria grazia con cui sa intrecciare le parole. Saccinto racconta il suo rapporto con la scrittura, rivela cosa lo spinga a "scrivere come vomitare".
«Io odio le mie mani su questa tastiera, io amo le mie mani su questa tastiera. Io amo le alchimie che queste dita disegnano, non perché volgono alla perfezione, ma perché sono netta sperimentazione, pura percezione e delirante visione, innalzano piani inesistenti che si reggono, leggeri, su quello reale. Sono l'ampliamento della realtà, tensione fuori dal mondo, la spinta di un braccio spiegato verso un bene universale.»
Ci sono rimasta molto (ma molto) male quando ho saputo che questa è un'opera prima e cioè, per il momento, figlia unica. Mi piacerebbe davvero molto vedere Stefano Saccinto alle prese con un testo più puramente narrativo. Di certo, attendo con ansia la sua prossima pubblicazione. E' un autore giovane ma davvero molto promettente e dotato di un talento raro.
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