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domenica 3 febbraio 2013

Tracce di poesia - Allen Ginsberg

Chiudo il libro che ho sulle ginocchia e mi perdo nel «fidente minuscolo pezzetto d'allucinazione» chiamato Allen Ginsberg. Poeta esponente della Beat Generation (la faditica "gioventù bruciata" che, negli anni 50 del secolo precedente, si ribellava al conformismo conservatore), Ginsberg è erede di una tradizione poetica (William Blake, Walt Whitman, Rimbaud, Ezra Pound) che in lui è smussata e rivoluzionata: le parole si fanno portatrici di una Verità che, pur manifesta, risulta celata dall'eccessivo bigottismo della classe medio-borghese americana. L'urlo di dolore si rivolge, tutto d'un fiato, all'America, madre infanticida che inghiotte i propri figli, triturando le loro speranze. Si tratta di una personificazione che ripercorre la poesia di Ginsberg come un leit-motiv: il richiamo "Moloch!" è insieme spleen e ideale. L'asfissia della matrigna diventa confessione, riconoscimento di ciò che è sacro, visione psichedelica della realtà, scombussolamento e torpore, vita che ribolle.


Allen Ginsberg 
«Moloch! Solitudine! Suicidio! Bruttura! Pattumiere e inottenibili dollari! Bambini che urlano sotto le scale! Ragazzi che singhiozzan negli eserciti! Vecchi che piangono nei parchi! 
Moloch! Moloch! Incubo del Moloch! Moloch il senzamore! Moloch Mentale! Moloch pesante giudicatore d'uomini!
(...)
Moloch che mi è entrato presto nell'anima! Moloch in cui sono una coscienza senza un corpo! Moloch che col terrore mi ha tolto alla mia estasi naturale! Moloch che io abbandono! Destatevi in Moloch! Luce sgorga a fiotti dal cielo!»

Il nichilismo prende piede quando «un battiglione perso di conversatori platonici che si buttan giù da scalini giù da scale antincendio da davanzali dall'Empire State piombando dalla luna» viene giù come in un crollare di edifici, per l'orrore che provoca il non sapere: le certezze vengono appiattite e, con esse, ogni possibilità di crescita. La società a cui questi giovani coraggiosi si ribellano è una società che mortifica l'intraprendente, che uccide le menti migliori, che scarnifica la voglia di vivere. 
E allora il suicidio.

«Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all'alba in cerca di una
pera di furia
hipsters testadangelo bramare l'antico spaccia paradisiaco che connette alla dinamo stellare nel meccanismo della notte
(...)
che scribacchiavan tutta notte rock-and-roll-dondolando su elevati incanti che nel mattino giallo eran strofe di scempiaggini
(...)
che gettavan gli orologi giù dal tetto per dare il proprio voto all'Eternità fuori del Tempo, e sveglie gli caddero in testa ogni giorno nel decennio dopo
(...)
che eran bruciati vivi nei loro innocenti vestiti di flanella in Madison Avenue tra scoppi di poesia plumbea e il ticchettio fradicio di ferrei reggimenti della moda e squittii nitroglicerina di checche pubblicitarie e il gas vescicante di sinistri editors intelligenti, o eran tirati sotto dai taxi sbronzi della Realtà assoluta»

Leggere Ginsberg è come fare un bagno caldo nel jazz, un viaggio senza trasparenze nelle brutture del manicomio. Moloch, col suo «pazzo generare», conduce alla follia di Carl Solomon, lo scrittore recluso al manicomio di Rockland («Son con te a Rockland», scrive Allen), ma ancora prima a quella di Naomi, la madre del poeta, a cui il poema "Kaddish" (dal nome di una preghiera ebraica) è dedicato. La morte della madre è occasione per ripensare ad una intima unione che si avvinghia ad una ancor più intima disperazione: «Non aver paura di me solo perché torno a casa dal manicomio - sono tua madre -»
La poesia di Ginsberg è quella della condivisione, quella in cui ogni dolore individuale si scioglie per riprendere forma, in Moloch. Il male di vivere assume una configurazione in cui ognuno può riconoscersi.

«Nient'altro da dire, e niente per cui piangere salvo gli Esseri nel Sogno, intrappolati nel suo sparire, singhiozzando, urlando per questo, comprando e vendendo pezzi di fantasma, l'uno dell'altro adoranti, adorando il Dio che dentro vi è incluso - per nostalgia o inevitabilità? - mentre dura, una Visione - e poi cos'altro? 
Mi balza incontro dappertutto, se esco e cammino per strada, mi guardo dietro le spalle, Settima Avenue, bastioni di finestre d'uffici edifici addossati l'uno all'altro protesi in alto, sotto una nuvola, altissimi come il cielo un istante - e il cielo là sopra - un vecchio posto blu.»

Il linguaggio del disagio è un linguaggio crudo che ben si sposa con le visioni allucinate a cui la droga conduce ("Urlo" è scritto durante le visioni prodotte dal peyote, "Kaddish" sotto l'effetto di anfetamine). Per Ginsberg, omosessuale, testi di questo tipo, sono sempre stati motivo di emarginazione sociale. Il processo per oscenità del 1957 subìto da Allen e dal suo editore (la City Lights Books di San Francisco) è il manifesto dell'ipocrisia contro cui la Beat Generation si scaglia: la rinascita si configura come un'emergenza bene accolta da scrittori quali Jack Kerouac, William Burroughs e Neal Cassady. 

«Santo Peter santo Allen santo Solomon santo Lucien santo Kerouac santo Huncke santo Borroughs santo Cassady santi gli ignoti inculati e soffrenti mendicanti santi gli schifosi angeli umani!»

Allen ha trovato una valida compagnia in Peter Orlovsky, il compagno che l'ha affiancato per quaranta anni, fino alla sua morte. 

Alcuni riferimenti letterari, biografici e cinematografici:


  • Il film "Urlo" del 2010, in cui Allen Ginsberg è interpretato da James Franco; 
  • Il film "On the Road" (tratto dal romanzo "Sulla strada" di Jack Kerouac) del 2012; 
  • Il libro "Urlo", che comprende i due poemi "Urlo" e "Kaddish", e che è edito da il Saggiatore, Milano, 2010; 
  • Il libro "Io celebro me stesso" di Billy Morgan, il Saggiatore, Milano, 2010.
Aaron Tveit e James Franco in una scena del film "Urlo", di Rob Epstein e Jeffrey Friedman 

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