Su di noi

domenica 3 aprile 2022

Inventare il futuro, di Srnicek e Williams

Il mondo di oggi rimane invece costretto all'interno dei parametri imposti dal "realismo capitalista". Il futuro è stato cancellato: siamo più inclini a credere che la catastrofe ecologica sia imminente, la militarizzazione della società inevitabile e l'aumento delle diseguaglianze inarrestabile. 

 Manifesto risalente a sette anni fa, Inventare il futuro di Srnicek e Williams sembra provenire da un passato ben più remoto. In quegli anni ’10 del Duemila si cominciava a pensare, in forme contraddittorie e spesso ingenue, a nuove forme di stato sociale, a nuovi modi di produrre e redistribuire la ricchezza globale, ad una nuova concezione dello Stato e della democrazia.

In Italia abbiamo assistito alla parabola del Movimento 5 Stelle che si è fatto portatore di molte di queste nuove istanze politiche e sociali. Dalle utopiche riflessioni sulla decrescita felice all’elaborazione di forme di democrazia diretta fondate sulla partecipazione virtuale, questo movimento è arrivato in parlamento, diventando un partito tradizionale sia nell’organizzazione che nelle idee politiche, sempre più vicine alla socialdemocrazia della seconda metà del novecento.

A prescindere dal caso specifico, in questi anni abbiamo capito – soprattutto dopo l’esperienza del covid -  che la partecipazione politica non può non essere fisica, che le nuove tecnologie possono essere un supporto per nuove forme di aggregazione, ma non possono sostituire quelle tradizionali. Che è fondamentale una nuova redistribuzione della ricchezza, un nuovo modo di teorizzare e progettare lo stato sociale, ma che questo non può ridursi ad uno stato “minimo” che si limita ad elargire un reddito di base, tralasciando di occuparsi dei servizi fondamentali quali l’istruzione e la sanità. Così come non possono ridursi ad uno stato minimo e liquido i movimenti politici che propagandano e diffondo idee di riforma e progresso sociali.

Rileggere un testo come quello di Srnicek e Williams alla luce di un tempo diverso da quello in cui è stato scritto aiuta da un lato a riflettere sul nostro più recente passato, dall’altro a riprendere quei concetti che erano validi e degni di discussione allora e che lo sono altrettanto oggi, e lo sono ancora di più proprio per le esperienze e per i cambiamenti che abbiamo affrontato in questi anni.

Il manifesto dei due autori si divide in una parte critica e in una programmatica. Nella prima parte viene criticata, con il nome di folk politics, quella tendenza della sinistra europea e statunitense contemporanee a frammentarsi in tanti piccoli movimenti che portano avanti rivendicazioni molto specifiche e spesso rivolte ad un passato piccolo borghese, artigianale, che non può costituire un’alternativa valida al capitalismo sempre più aggressivo, tecnologicamente avanzato e capace di fagocitare le più diverse forme di vita.

Da Occupy Wall Street ai movimenti per lo slow food, la tendenza dei movimenti critici nei confronti del capitalismo globale hanno fatto della loro debolezza politica il loro eroismo, della loro ineffettualità la loro superiorità etica, della loro incapacità organizzativa la loro utopica creatività. Sulle radici filosofiche e teorico-politiche di questo fenomeno gli autori non si soffermano, ma è un capitolo della storia contemporanea su cui vale la pena riflettere.

Ad ogni modo, questa impostazione della lotta sociale e politica si è rivelata fallimentare, e non poteva non fallire. Questo perché l’organizzazione neoliberista della società globale – nelle sue diverse forme di sussunzione – non è il frutto di una contingenza storica, ma di un progetto articolato in diverse fasi, intelligentemente organizzato e tenacemente portato avanti. Srnicek e Williams ripercorrono la storia del neoliberismo novecentesco che nasce come una teoria economico-politica fortemente minoritaria rispetto al keynesismo, soprattutto nella seconda metà del Novecento. Ebbene, una minoranza di economisti e uomini politici ha portato avanti un progetto egemonico in controtendenza rispetto ai tempi fino alla sua piena realizzazione, formando e mandando nel mondo intellettuali, politici, uomini di scienza.

Gli autori omettono un piccolo particolare. La minoranza neoliberista appartiene comunque ad un’élite borghese che aveva mezzi e risorse per poter costruire la sua egemonia, al contrario dei ceti subalterni e dei popoli sfruttati di tutto il mondo. Tuttavia, la loro analisi, pur presentando delle ingenuità, incoraggia all’azione, alla riflessione, cerca di opporre delle argomentazioni ragionevoli al fatalismo rassegnato dell’opinione pubblica occidentale.

Alla folk politics si contrappone l’universalità di un nuovo pensiero riformista e progressista. La più specifica delle questioni si inserisce in un contesto globale che va analizzato e compreso. Solo alla luce di questa comprensione totale e dei nessi che legano le specifiche problematiche della nostra società, è possibile costruire una rete di movimenti guidata da un centro coordinatore teorico e pratico. Questo “centro” io lo chiamerei “partito”, ma gli autori a questo proposito non si pronunciano.

Qual è, dunque, la visione politica che si abbozza in questo saggio? La tesi di fondo è che nella società contemporanea il lavoro non sia più necessario e che la piena automazione sia ormai una possibilità concreta. Già Herbert Marcuse, quasi settant’anni fa, aveva prospettato questa possibilità come via d’uscita e superamento della società capitalistica, che aveva creato un surplus prestazionale e repressivo che superava “l’ordinaria” amministrazione repressiva della società. Più la società capitalistica si accresce e complica, aumentando i propri bisogni, incrementando e migliorando le sue capacità produttive, sussumendo sotto di sé l’intero globo terrestre, più il disagio della civiltà diventa insostenibile e più diventa necessario amministrare non solo il tempo di lavoro degli esseri umani, ma anche il loro tempo libero, il loro modo di pensare, le loro pulsioni creative più spontanee. L’automazione permetterebbe di liberare proprio questa pulsioni e di “umanizzare” la civiltà meccanizzando il lavoro.

Secondo Srnicek e Williams la nuova sinistra deve abbandonare l’ideologia del lavoro cui è stata ancorata per più di un secolo ed abbracciare questa nuova ideologia del non lavoro, del reddito universale e della piena automazione del sistema produttivo. In questo modo, quel surplus di popolazione mondiale che viene emarginata dai processi produttivi, relegata a forme di economia di sussistenza, sopraffatta dalla miseria, dalla disperazione e dell’angoscia, potrebbe finalmente ricchezza che gioverebbe e sarebbe indirizzata all’umanità stessa, e non ritorta contro di essa.

Questo assunto universale si declina a seconda delle condizioni materiali, della storia e della cultura dei diversi popoli ma, in linea generale, è una prospettiva che coinvolge tutti gli esseri umani e che permetterebbe l’emancipazione delle classi e dei popoli oppressi. E questo proprio in una società in cui lavoro che fai segna profondamente chi sei e in cui non lavorare è visto come una colpa imperdonabile, come uno stigma che ti relega ai margini della società.

Un ultimo punto interessante. Per i due autori il problema del surplus di popolazione non è legato necessariamente a momenti di crisi economica. Si sta verificando il fenomeno per il quale anche quando l’economia è in crescita, i posti di lavoro diminuiscono e non soltanto nei paesi a capitalismo avanzato, ma anche in quelli in via di sviluppo. Il problema della popolazione “in eccesso” rispetto alle attività produttive potrebbe diventare un problema sempre più grave anche qualora si dovesse superare la crisi economica che, a fasi alterne, caratterizza gli ultimi quindici anni di capitalismo globale.

Nel saggio si descrive il mondo che dovrebbe sorgere dall’abolizione del mondo del lavoro come “post capitalismo”, termine che non mi trova d’accordo, perché ci fa capire come l’alternativa al capitalismo sia ancora talmente nebulosa da non avere nemmeno un nome, e come il capitalismo ci sembri ancora l’unico dei mondi possibili, sebbene non il migliore. Ma, come gli stessi autori ammettono, il percorso teorico e pratico è ancora lungo e difficile, tutto da costruire.  

 

 

 

 

 

venerdì 11 febbraio 2022

Il lavoro e il sogno della contemporaneità

 

In un’epoca in cui, nella civiltà occidentale a capitalismo avanzato, il lavoro è diventato sempre meno necessario, esso si vela di caratteristiche sempre più magiche e fantasmagoriche, miraggio che promette appagamento, sicurezza economica, fiducia in se stessi, riposo dopo tanti e spesso vani sforzi.

L’idea di trovare un Lavoro che ci sollevi finalmente dall’insopportabile peso dei mille “lavoretti”che si è costretti a fare per vivere, dei tanti compromessi per poter essere accettati, riconosciuti e apprezzati in un determinato ambiente sociale – sia questo la famiglia, la cerchia di amici, l’azienda in cui si vuole far carriera, l’accademia o il bar sotto casa – è il faro che guida la nostra condotta nel rapporto con noi stessi e con gli altri, con i pari e con i superiori.

Pochi di noi nati nel 1990 o giù di lì possono negare di aver sentito quel peso e quell’angoscia derivanti da un profondo senso di inadeguatezza e di smarrimento dovuti al fatto di essersi trovati sospesi nel vuoto dopo aver percorso tutto d’un fiato una strada che ci sembrava certa e sicura. Quella strada che i nostri genitori avevano percorso o sulla quale ci avevano immaginati e sognati, felici e grati dei loro sforzi.

Le cose sono andate diversamente. E continuano ad andare diversamente per le generazioni successive. Quelle strade non sono più sicure, ma piene di buche e insidie, di trappole in cui si può cadere. E morire.

Il sogno di un lavoro sicuro e appagante si trasforma in un incubo sia perché è difficilissimo da raggiungere e richiede molto tempo e fatica, sia perché questo traguardo così importante, posto in cima ad un’altissima montagna che siamo spinti a raggiungere, condiziona tutta la nostra esistenza, il nostro presente, che diventa un impercettibile passaggio tra un passato da dimenticare e un futuro da inseguire.

In una società in cui la fatica non è più necessaria, come giustificare questa corsa insensata? Più il lavoro diventa inutile, più l’individuo è valutato sulla base delle proprie capacità prestazionali e delle proprie competenze specialistiche. Se da un punto di vista oggettivo si fa concreta la possibilità di vivere degnamente senza doversi sobbarcare la fatica del lavoro, dal punto di vista soggettivo gli individui si convincono che la loro professione qualificata sarà ciò che li renderà felici, protagonisti all’interno della società, amati e rispettati. Gli individui si convincono che una volta raggiunto il loro scopo non saranno più soli, che non dovranno più lottare, che avranno vinto sulle pressioni sociali. Noi uomini contemporanei occidentali viviamo nella contraddittoria e illusoria convinzione che possiamo diventare liberi dall’angoscia che ci viene dalla società, dal grande Altro che ci giudica e ci osserva – che per ognuno di noi assume un volto diverso – solo se ne assecondiamo ogni richiesta o, ancora meglio, se riusciamo ad intuire anticipatamente queste richieste e a soddisfarle ancor prima che ci vengano fatte.

Siamo educati e diretti verso la “realizzazione” di noi stessi, che non è estrinsecazione libera e gioiosa della nostra personalità, ma darwiniano adattamento alle condizioni ambientali, a quella seconda natura che è la nostra civiltà. Oggi le condizioni ambientali si fanno sempre più dure e i sacrifici necessari per l’adattamento sempre più dolorosi. I sintomi, i ritorni di ciò che viene rimosso, le coazioni a ripetere riemergono sempre più frequenti.

 Inquietante, sorge un dubbio: è davvero necessario? Ne va davvero della nostra sopravvivenza? Se non si riesce a vincere la lotta per l’adattamento è necessario rinunciare a vivere?

Comincio a credere che nella risposta che diamo a questa domanda ne vada davvero della nostra vita. Ma in un senso contrario a quello dell’ideologia della prestazione e della “realizzazione di sé”. Penso che inseguire questo falso idolo stia diventando pericoloso per la nostra vita, che l’adattamento all’ambiente non sia più giustificato dalla necessità della sopravvivenza ma che, al contrario, ci conduca alla morte. Le modalità e le manifestazioni di questo principio distruttivo e mortifero sono innumerevoli,  vanno dalla morte intesa in senso metaforico come annichilimento delle pulsioni più vitali e creative degli esseri umani – e non solo – alla morte reale.

D’altro canto penso che ogni manifestazione di rifiuto di questa logica annichilente sia un moto della vita che non riesce a negare se stessa e che raccoglie le sue poche e deboli energie per fronteggiare il processo della sua distruzione. Molto probabilmente mancare del tutto o in parte l’adattamento potrebbe salvarci dalla morte, magari permetterci di fare esperienza di forme di appagamento differenti, di scoprire una nuova vita. Più morbida, più dolce, più adatta a noi.