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mercoledì 28 febbraio 2018

Una vita, di Italo Svevo



L’articolo indeterminativo del titolo del romanzo, pubblicato nel 1892, ci porta subito al cuore dell’opera. "Una vita" indica sia la non originalità della vita narrata, una vita come tante, di un impiegato qualunque in una banca qualunque di una città qualunque, ma anche l’indeterminatezza di questa vita. Non solo l’anonimato di un’esistenza riproducibile su larga scala, esattamente come una merce, ma anche l’incapacità di questa esistenza di darsi una forma, di aderire ad un ruolo sociale, di scegliere. Una vita è la storia di un uomo la cui esistenza non è che la negazione della vita stessa.

Alfonso è un giovane di provincia che si trasferisce in città per lavorare in una prestigiosa banca, la Maller & Co. Sin dai primi giorni del suo lavoro alla corrispondenza sente quell’attività come insopportabile: trascrivere per un’intera giornata le stesse parole, con lo stesso linguaggio freddo, sterile, incomprensibile, porta la mente del giovane a distrarsi. Non riesce a concentrarsi sul lavoro che sta facendo e, in quelle poche occasioni in cui riesce, tutto il peso della fatica e dell’insensatezza di quel lavoro gli piomba addosso.

Questo piccolo uomo, vestito miseramente, che si confonde nella città tra tanti altri omuncoli, cova dentro di sé sogni di gloria. Vuole diventare un grande filosofo, scrivere un libro sulla idea di morale. Vuole dimostrare la tesi per cui le idee morali sono sempre condizionate dal contesto storico e sociale in cui si danno. Un’idea non originale, pensa, ma che egli saprà descrivere con intelligenza ed eccellenti argomentazioni. Alfonso vuole essere un filosofo e vivere secondo grandi e nobili princìpi morali. Dopo il lavoro, si reca ogni sera in biblioteca, dove si sottopone a faticosi studi filosofici.

Una sola ora passata su qualche difficile opera critica lo quietava per un’intera giornata. Inoltre, in poco tempo, gli era venuta l’ambizione e lo studio era divenuto il mezzo a soddisfarla. Le cieche obbedienze a Sanneo, le sgridate che giornalmente gli toccava sopportare, lo avvilivano; lo studio era una reazione a quest’avvilimento. Dinanzi ad un libro pensato faceva sogni da megalomane, e non per la natura del suo cervello, ma in seguito alle circostanze; si trovava ad un estremo, si sognava nell’altro.

Un giorno conosce Macario, un parente del Sig. Maller, il padrone della banca, il quale lo prende subito in simpatia. Macario è il contrario di Alfonso: il primo è padrone di sé, deciso, istintivo, conquista le donne con estrema facilità, il secondo insicuro, remissivo, riflessivo fino all’inazione. Macario si rivolge sempre ad Alfonso come ad un inferiore, e da inferiore, lo introduce nell’esclusivo circolo di casa Maller. Qui conosce Annetta, la figlia del padrone, una ragazza frivola e capricciosa con aspirazioni intellettuali, che dapprima tratta Alfonso come se non esistesse, poi, per capriccio, decide di diventargli amica. La relazione tra i due si articola in diverse fasi: una prima segnata da una rispettosa amicizia, durante la quale i due decidono di scrivere un romanzo insieme – Alfonso vorrebbe scrivere un romanzo introspettivo, mentre Annetta impone le sue idee manieristiche e vuote – una seconda segnata dal corteggiamento insistente di Alfonso e dal rifiuto di Annetta, una terza in cui Annetta cederà al corteggiamento di Alfonso.

René Magritte, L'Heureux donateur, 1955
L’amore tra i due è un amore freddo, caratterizzato dai continui tormenti di Alfonso e dall’ipocrisia di Annetta: Alfonso sa che Annetta non lo ama, che ha ceduto per mera sensualità, che non potrà mai amarlo perché Alfonso è il suo “rospo”, come suole chiamarlo. Alfonso si tormenta perché adesso dovrebbe sposarla: è un suo dovere coronare un rapporto erotico di amore e moralità, ma d’altro canto, tutti penseranno che ha sedotto Annetta per sposarla e fare carriera in banca. In qualsiasi modo agisca, Alfonso sarà visto dagli altri come un essere meschino, un inetto e arrivista, oppure come un mascalzone.

In tutto il romanzo si intrecciano vicende in cui l’amore, i doveri morali, le convenzioni sociali si confondono, appartengono ad un flusso di sentimenti in cui non è possibile distinguere cosa provano davvero i personaggi, se le motivazioni che adducono alle loro azioni sono autentiche o sono animate dalla menzogna o dalla malafede. Annetta chiede ad Alfonso di partire perché vuole discutere col padre dell’accaduto e non vuole che il suo seduttore si trovi a subire delle conseguenze sul lavoro: ma è davvero per questo motivo che lo fa? Oppure vuole allontanarlo per organizzare un altro matrimonio, magari con Macario? Francesca, l’amante di Maller, dice ad Alfonso che se partirà, avrà rinunciato ad Annetta per sempre. Ma perché Francesca si interessa alla causa di Alfonso? Per interesse, perché pensa che, se Annetta sposa un inferiore, anche suo padre potrà sposare un’inferiore, ossia Francesca.

Le stesse dinamiche di sotterfugi, amori, interessi personali si ripetono all’interno della famiglia che ospita Alfonso. La Sig.ra Lanucci vuole che sua figlia faccia un buon matrimonio e la destina ad Alfonso, il quale però la rifiuta. La ragazza sarà poi sedotta da un giovanotto di umili origini, e Alfonso convincerà il ragazzo a sposare la povera ragazza, incinta, promettendogli del denaro. Alfonso sente il dovere di aiutare questa famiglia che vive nella miseria, ma allo stesso tempo li disprezza. Sacrifica una sua piccola rendita per far sposare una ragazza di cui non gli importa nulla. Ma non è generosità, bensì desiderio di riconoscenza, come farebbe un superiore con degli inferiori.

L’unico rapporto davvero autentico della vita di Alfonso è quello con sua madre. Il romanzo si apre con una lettera di Alfonso in cui la supplica di dirgli solo una parola: “Torna”. Quella parola non sarà mai pronunciata. Alfonso, dopo la notte con Annetta, accoglie la richiesta di quest’ultima di allontanarsi dalla città. In banca chiede un permesso con la scusa che sua madre è malata. Quando torna al paese, la troverà malata per davvero. La assiste, la accudisce notte e giorno per  tutto il tempo che le rimane. Quando lei muore, Alfonso versa poche lacrime. Anche qui le convenzioni, la presenza di altre persone che lo guardano, gli impedisce di sfogare il suo dolore.

Quando torna in città, Annetta è promessa sposa di Macario. Alfonso lotta per riguadagnarsi il rispetto di Maller e quello di Annetta. Capisce che la ama davvero, che non era animato solo dalla sensualità. Ma non riesce, agli occhi dei due superiori, a togliersi quell’immagine di meschino e di inetto. Ogni tentativo di parlare di quella notte d’amore, ogni minimo riferimento, è percepito sia da Annetta che da suo padre come un velato ricatto. Finché Alfonso non scopre che Annetta lo vuole morto.

Una vita. Una vita schiacciata all’interno di un meccanismo tanto complesso quanto efficiente: una macchina fatta di gerarchie sociali immutabili, che segnano tra gli individui degli abissi  che non si possono colmare col sesso né con l’amore, che è uno dei tanti specchi che riflettono queste distinzioni. Una macchina fatta di mille convenzioni, di paletti che segnano il percorso obbligatorio da percorrere. Una macchina in cui i valori morali sono a doppio fondo, quello in superficie, pubblico, che accoglie questi valori come assoluti, e quello privato, in cui questi valori sono irrisi o ignorati. Alfonso non riesce ad adeguarsi al movimento degli ingranaggi, non riesce a vivere la doppiezza delle relazioni umane. Non riesce a vivere. Di fronte a questa incapacità, alla noluntas generata dalla meschinità della vita, Alfonso compie l’unica scelta autentica che può compiere, quella del suicidio.

Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualchecosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che altri nelle più dolorose. L’abbandonava senza rimpianto. Era la via per divenire superiore ai sospetti e agli odii. Quella era la rinunzia ch’egli aveva sognata. Bisognava distruggere quell’organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo. Non avrebbe scritto ad Annetta. Le avrebbe risparmiato persino il disturbo e il pericolo che poteva essere per lei una tal lettera.




lunedì 19 febbraio 2018

"Sami blood": la difficile costruzione dell'identità

Sangue sami: il titolo pare rivendicare un'identità tramandata per via biologica, genetica, una concezione essenzialistica dell'identità culturale, da cui il sami e la sami non possono fuggire, a cui sono destinati a ritornare pur dopo l'esplorazione di culture diverse. Una sorta di naturale, istintivo "richiamo della foresta". Ma la lettura proposta dalla regista Amanda Kernell nel suo lungometraggio di esordio va molto oltre questo stereotipo, e si richiama ad una concezione dialettica di identità. Racconta le stratificazioni e le lotte interiori del soggetto che costruisce il proprio io, all'interno e contro la cultura del proprio gruppo, e allo stesso tempo la definizione dialettica (per tramite del contrasto noi/gli altri) del gruppo stesso, quello del popolo sami.
I sami o lapponi, minoranza etnica della Svezia e di altri Paesi scandinavi, possiedono una propria cultura tradizionale ben definita ed una lingua propria. Ancora all'indomani della Seconda Guerra Mondiale, quella sami era una popolazione nomade che fondava la propria economia sull'allevamento delle renne. In questo contesto è ambientata la storia narrata da Kernell: i bambini e i ragazzini sami, pur indossando gli abiti tradizionali e ritirandosi a sera a dormire nelle tende mobili sui pascoli montuosi, devono frequentare le lezioni di una maestra svedese e sforzarsi di parlare in classe esclusivamente svedese, pena un castigo corporale. Elle-Marja, adolescente sami di spiccata intelligenza e con una personalità ancora in fase di difficile costruzione, è la più brava ad adattarsi alla lingua e alla cultura degli Altri, è la sola a guardare con desiderio all'alterità svedese, che impone dall'alto un modello omologante alla minoranza sami, che è costretta ad adattarvisi, seppur con molti attriti e resistenze. La sorella minore di Elle-Marja, rappresentante di tali resistenze e fiera portatrice della cultura tradizionale, parla lo svedese stentatamente e con fastidio, preferendo di molto cantare il joik, il canto rituale sami.
La maestra svedese guarda con una dolcezza inevitabilmente paternalistica a Elle-Marja e le regala un libro di poesie che contiene il suo verso preferito: «Anelo la terra che non esiste, e tuttavia sono stanco di desiderare». È un verso che si addice alla ricerca sempre frustrata di Elle-Marja di una personalità in cui sentirsi a proprio agio, di un'identità adulta liberata dalle insicurezze dell'adolescenza, una storia e una forma di cui andare fiera.
Quando Elle-Marja cammina verso la scuola nel suo abito tradizionale, i ragazzi svedesi ridono alla sue spalle: perché i sami puzzano ed Elle-Marja puzza, e il suo vestito è ridicolo, e anche se i sami vivono in Svezia senz'altro non capiscono lo svedese e si può insultarli a piacimento. «Ecco gli animali del circo!» grida uno dei ragazzi nel veder arrivare la fila di bambini sami diretti alla lezione.
La sua appartenenza al popolo sami non genera altro che vergogna e senso di rifiuto in Elle-Marja. Il suo ruolo nei confronti della maestra svedese che annuncia l'arrivo di ospiti da Uppsala si può definire collaborazionista. Lei è la più docile, la più desiderosa di addomesticamento alla cultura dominante: quindi per prima, per dare il buon esempio, viene gettata in pasto agli ospiti svedesi che si rivelano degli studiosi senza scrupoli. La costringono a spogliarsi davanti al resto della classe e alla finestra aperta e la sottopongono gelidamente a esami medici e a misurazioni antropometriche, in un'agghiacciante sequenza che richiama alla mente sia il distacco dei medici nazisti nei confronti dei "subumani" ebrei o zingari, sia l'atteggiamento lombrosiano che ricercava nelle misure del cranio e nella distanzia tra gli occhi la dimostrazione scientifica dell'inferiorità naturale dei meridionali. Di tutta la sequenza mi ha irritato in particolare un gesto inaccettabile sotto la sua facciata di innocenza: la carezza di una delle studiose ai capelli biondi di una bimba sami, e la sua parola compiaciuta per quella tonalità di biondo. Un carezzare compiaciuto che pare rivolto a un gatto o a un cavallo, che non si chiede se alla bimba piaccia che un'estranea le tocchi le trecce, e che sotto la veste di un bonario paternalismo nasconde la stessa violenza che le cronache dell'epoca ci tramandano dei seppur "buoni" e "gentili" missionari europei, colonizzatori dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina.



Di quest'ultima, smisurata umiliazione, dell'essere stata trattata come una bestia da studiare, Elle-Marja non accusa gli svedesi ma la propria appartenenza al gruppo giudicato inferiore. Introietta le accuse, la discriminazione, gli insulti contro i sami ed ella stessa si rivolta contro la propria storia, la propria identità, e si decide definitivamente a rigettarla, a costruirne una completamente nuova. Chiede alla maestra di aiutarla a trasferirsi in città, ma il marchio infame si alza come un muro tra Elle-Marja e il suo sogno: essere prima della classe tra i sami non è sufficiente a seguire le normali lezioni per i ragazzi svedesi. Troppa è l'inferiorità dei sami perché uno di essi possa estirparla da sé.
Qui inizia l'avventura solitaria di Elle-Marja e contemporaneamente si dà il passaggio dall'adolescenza all'età adulta: ruba un vestito occidentale, si lava in una polla d'acqua per togliersi di dosso la puzza sami e con queste nuove vesti riesce facilmente a vivere la sua prima avventura romantica e poi a fuggire in città, da sola e vestendo una nuova identità: Elle-Marja è rimasta indietro e adesso c'è solo Christina nata nello Småland (particolari anagrafici rubati alla sua maestra) e vestita di abiti altrui.
La chiave della costruzione del nuovo io, come nelle lezioni in lingua svedese (e come nei processi dell'egemonia culturale nei contesti coloniali), sta nell'istruzione: Elle-Marja/Christina si rivolge ad una scuola di Uppsala perché la educhi come una ragazza svedese, perché la trasformi agli occhi di tutti in Christina solamente, e il passato sami sia cancellato dalla storia. Ma per frequentare una scuola e vivere in città occorre denaro. Per procurarselo Elle-Marja è disposta a tutto, perfino a tornare temporaneamente nella casa rifiutata, dove c'è da commettere un delitto, un parricidio freudiano: il sacrificio di una renna, che è allo stesso tempo un ricatto contro la madre e l'assassinio figurato della cultura sami.
"Sami blood" è un film raffinato, un difficile gioco di equilibrismo tra la tradizione e la globalizzazione, tra il rischio della chiusura soffocante in se stessi e quello speculare della dispersione in un modello culturale omologato e privo di storia. È la narrazione di una costruzione soggettiva tra l'infanzia e l'età adulta, tra la casa e il mondo esterno, segnata da riti iniziatici e ritorni simbolici, che dura fino alla vecchiaia della protagonista, perché la soggettività umana non è un'essenza ma un processo, e non finisce mai il lavoro di ricerca di una sintesi che sappia sussumere in sé tutte le fasi e tutte le stratificazioni della storia personale e sociale.