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venerdì 12 dicembre 2014

La cultura popolare e i neolalici imbecilli

In un film-saggio di Giorgio Baratta, Dario Fo racconta di Gramsci critico teatrale. Lo fa con la sua solita maniera affezionata e affabulatrice, soffermandosi su quanto di più originale contraddistingueva l’attività critica di Gramsci: il divertirsi assistendo ad uno spettacolo comico, ad esempio. Dario Fo fa notare come non sia affatto banale: i critici, spiega alla luce della sua vasta esperienza, tendenzialmente non riescono a godersi gli spettacoli teatrali perché non sanno dimenticare di essere critici, e finiscono col risultare perfino infastiditi che attorno a loro ci sia un pubblico che si emoziona e diverte mentre loro mantengono il contegno e il distacco di chi sta praticando la propria professione. Antonio Gramsci non era un critico di tal fatta: non solo godeva gli spettacoli cui assisteva, fruitore-critico tra i semplici fruitori, ma dedicava anche una precipua attenzione alle reazioni del pubblico. Le sue osservazioni benevole, il suo coinvolgimento tutt’altro che snobistico rivelano delle coordinate importanti del suo pensiero-prassi e del suo atteggiamento nei confronti del popolo non intellettuale.
Soffermiamoci sull'immagine offerta da Dario Fo, quella di Gramsci assiso tra gli spettatori paganti per assistere ad uno spettacolo di Pirandello o di Ibsen, per inquadrare Gramsci in relazione alla cultura popolare e allo stesso popolo fruitore di essa.
In una lettera a Tania, Gramsci «si vanta di saper “razzolare” anche nei “letamai” (o di riuscire a “cavar sangue anche da una rapa”), cioè di possedere “una capacità abbastanza felice di trovare un qualche lato interessante anche nella più bassa produzione intellettuale”».
Risultato della frustrazione della reclusione carceraria in cui anche le letture più insulse facilitano lo scorrere del tempo; anche della carenza di buoni libri e di un piano di studio metodico e sistematico (di cui Gramsci si lamenta accoratamente in diversi luoghi, prima di iniziare la stesura dei Quaderni); ma la faccenda non si esaurisce in queste contingenze. Nella sua produzione carceraria, Gramsci si sofferma attentamente sulla cultura e sulla letteratura popolare, di cui intende mettere a fuoco le caratteristiche ma soprattutto le esigenze di pubblico che ne provocano l’insorgenza. Questo proposito è manifesto già dal primo Quaderno, nel quale Antonio innanzitutto annota gli argomenti di studio cui vorrà dedicarsi:

«4) La letteratura popolare dei “romanzi d’appendice” e le ragioni della sua persistente fortuna. […]
7) Il concetto di folklore».

Ho riportato anche il settimo punto dell’elenco, che può apparire argomento pur di poco divergente, attenendomi alle considerazioni di Gramsci stesso, dal momento che il suo primo riferimento alla cultura popolare la considera proprio nel senso di «folklore», ponendola in contrasto con la “cultura moderna”, oltre che con quella “alta”. Successivamente, nel Quaderno 14, Gramsci precisa che folklore e cultura popolare non sono esattamente sinonimi, ma il primo coincide con la seconda nel suo «grado infimo». La cultura popolare in senso ampio, come insieme che includa il sottoinsieme “folklore”, sarà piuttosto il mondo del “senso comune”, con la sua infarinatura di ogni argomento, secondo le sedimentazioni lasciate dalle scienze come dalla filosofia nella cultura orale, talvolta deformante. È una sorta di serbatoio di potenzialità di alternativa alla cultura dominante, e che può sfociare in una direzione consapevole, sfuggendo al mero sovversivismo, solo grazie all’intervento mediatore ed educatore degli intellettuali.
Per quanto riguarda questa funzione “educativa”, non si deve, nel risalire alla concezione gramsciana di “cultura popolare”, cadere nell’inganno di ritenerla coincidente con un tipo di letteratura meramente “pedagogica”, per ragioni per lo più contingenti: quando Gramsci scrive a questo riguardo, ha presenti le posizioni di alcuni suoi contemporanei, dalle quali ritiene giustamente di doversi dissociare. È il caso del
Quaderno 8, nel quale Gramsci si sofferma a considerare un libro della Brenna intitolato La letteratura educativa popolare italiana nel secolo XIX e la relativa recensione della professoressa Formiggini-Santamaria. La seconda rimprovera alla prima di non aver precisato quali siano i «libri adatti […] alla povera mentalità di lavoratori del braccio».
E se la Brenna pecca di snobismo oltre che di imprecisione, anche la Formiggini-Santamaria è accusata da Gramsci dal medesimo peccato:

«La Formiggini insiste sulla parola “educativa” ma non indica il contenuto che dovrebbe avere un tale concetto, eppure la quistione è tutta qui. La “tendenziosità” della letteratura popolare [educativa] d’intenzione è così insipida e falsa, risponde così poco agli interessi mentali del popolo che l’impopolarità è la sanzione giusta».

Gramsci dopo anni di detenzione.
Una pedagogia di tipo paternalistico non avrà come esito o come ispirazione l’emancipazione della massa-operaia-lettrice, quanto piuttosto tenderà a conseguire il «mantenimento della sua condizione di inferiorità». Pertanto, finisce con l’essere non solo poco utile, quanto perfino dannosa e offensiva. Alle preoccupazioni di Gramsci che la letteratura popolare non sia centellinata dall’alto tenendo conto di somministrare ai lettori «arretrati» opere adatte alle loro deficienze culturali e linguistiche, quindi badando che siano «di stile non aulico e ricercato» e che rientrino tra quelle che «prendono ad argomento le lievi vicende e la serena natura», Ascanio Celestini risponderebbe con ironia: «Il popolo è un bambino!».
Eppure, la letteratura popolare non è neppure quella elaborata dagli operai per essere letta dagli operai: le posizioni proletkult’iste, non ancora mature neppure nella loro patria sovietica, non trovano alcuna corrispondenza nel pensiero gramsciano.
Auspicare una cultura del genere sarebbe stato poco degno di un pensatore fine come Gramsci, visti i suoi caratteri evidentemente settari e fanatici, che arrivano a rinnegare l’intera produzione culturale e artistica “borghese” dei secoli precedenti, con giustificazioni a loro modo ideologicamente coerenti eppure risultati culturali devastanti; la storia, del resto, ha dimostrato quanto il proletkult’ fosse una pensata fallimentare.
L’ultima accezione di “cultura popolare”, quella che Gramsci riconosce e sulla quale si sofferma con attenzione, fa capo alla «letteratura mercantile» (anche se non si esaurisce in essa, che ne è una sezione). Si tratta di quella letteratura cui è conferito un valore non intrinseco (inerente alla sfera dell’arte) ma estrinseco, con riferimento alla sua vendibilità e alla sua possibilità di diffusione. Questo tipo di letteratura, scrive Gramsci, non va trascurato e ignorato: al contrario, esso fornisce dei dati estremamente interessanti su quali siano i bisogni letterari e culturali della popolazione, ed è propedeutico porsi questo tipo di domande per poter delineare una sorta di catalogo dei gusti popolari (cosa che Gramsci farà soffermandosi sul poliziesco, sul sentimentale, sul romanzo di puro intrigo, quello d’avventure eccetera). Non è questo un interesse
puramente tabellario e libresco, ma uno snodo molto interessante da cui possono dipanarsi differenti percorsi teorici, ad esempio: quali sono i bisogni popolari in fatto di letteratura? Cosa il popolo desidera leggere? In risposta a questo quesito, Gramsci definisce Il Conte di Montecristo come «il più “oppiaceo” dei romanzi popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subito un’ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla “punizione” da infliggere loro?».
Secondo quesito, legato al primo: perché in Italia non è possibile che si dia letteratura popolare e artistica (questo era vero negli anni ’20 e forse lo è ancora oggi, se Fabio Volo non si schioda per una settimana dal podio dei best-seller)?
Una riposta a questo importante quesito risiede nel pregiudizio espresso da Luigi Volpicelli per cui il popolo avrebbe «amato sempre l’arte più per quello che non è arte che per ciò che è essenziale all’arte», essendo i porci incapaci di cogliere la bellezza delle perle. Gramsci dà tutt’altra spiegazione e se uno dei due poli è colpevole della frattura intellettuali-massa, non è il secondo. Scrive nel Quaderno che quella di Volpicelli è:
«osservazione senza costrutto né base: è certo che il popolo vuole un’arte “storica” (se non si vuole impiegare la parola “sociale”), cioè vuol un’arte espressa in termini di cultura “comprensibili”, cioè universali, o “obbiettivi”, o “storici” o “sociali” che è la stessa cosa. non vuole “neolalismi” artistici, specialmente se il “neolalico” è anche un imbecille».
Gli intellettuali-artisti capaci di espressioni universali sono dunque quelli propriamente «nazionali-popolari», in totale contrasto con quelli riconducibili all’«”individualismo” artistico espressivo antistorico (o anti-sociale, o anti-nazionalepopolare)» di tipo crociano.
L’insegnamento di Gramsci è stato ben recepito da Ettore Scola, dunque, se questa caratteristica di “universalità” e “comprensibilità” fa il vero intellettuale, quello utile al popolo: Nicola (interpretato da Stefano Satta Flores) di C’eravamo tanto amati è un intellettuale e in quanto tale è «più su, più giù, più oltre» della classe operaia. Così “più oltre” che neppure gli amici riescono a tenergli dietro, figurarsi il “volgo ignorante”: nel capolavoro di Scola, Nicola è senza dubbio l’intellettuale incapace di farsi capire e pertanto destinato, come Cassandra, a rimanere inascoltato, per quanto possa avere ragione. Non è casuale, credo, che Nicola conosca la risposta esatta e difficilissima ad un quesito di Lascia o raddoppia, una domanda sul dietro-le-quinte di Ladri di biciclette, ma nonostante ciò non riesca a vincere (la risposta gli viene riconosciuta come sbagliata, nonostante anni dopo lo stesso De Sica la sostenga pubblicamente) e venga perfino sbeffeggiato.
Non basta, dunque, che l’intellettuale sappia: è assolutamente indispensabile che sappia anche trasmettere quel sapere, quel metodo, quei contenuti. È proprio ad un difetto degli intellettuali italiani, a questa loro incapacità, che Gramsci imputa la mancanza di una letteratura popolare di qualità, o anche solo “popolare” in senso stretto (i libri più diffusi erano infatti traduzione di opere estere). Le carenze di una cultura popolare sono «conseguenze di quella secolare divisione tra intellettuali e classi popolari che, agli occhi di G[ramsci], aveva impedito e continuava e impedire la formazione della nazione stessa oltre che la nascita di una cultura capace di esprimere i bisogni e le aspirazioni culturali di tutte le componenti della società italiana».
Questo rapporto complicato tra gli intellettuali e il “popolo”, che nella migliore delle ipotesi instaura un atteggiamento dei primi verso il secondo di «condiscendente benevolenza, non medesimezza umana», non fa che sancire definitivamente quella cesura tra loro.

Fotogramma del film C'eravamo tanto amati di Ettore Scola.
Nicola  (Stefano Satta Flores) sta rispondendo esattamente
alla domanda di Mike Bongiorno (nei panni di se stesso), senza
tuttavia che il suo trionfo sia riconosciuto.