Su di noi

sabato 22 marzo 2014

"Il conformista" di Alberto Moravia

Marcello Clerici avverte fin da piccolo di nascondere qualcosa di "sbagliato" dentro di sé. È una sensazione inconsapevole ed opaca che si manifesta in piccoli, malsani modi: in stragi di lucertole. Piccole crudeltà inspiegabili che contemporaneamente generano in Marcello senso di colpa, bisogno di punizione e desiderio di rifuggire questa spietata "anormalità". Per convincersi di non essere poi così diverso dagli altri prova a coinvolgere l'amichetto Roberto nelle sue violenze sulle lucertole, ma il bambino si rifiuta disgustato. Marcello adesso è certo di essere un diverso perché non è più una sua impressione, magari erronea, ma la condanna di un'altra persona.
Cerca una punizione che gli permetta di espiare la sua colpa, che non è l'uccisione delle lucertole ma la semplice diversità. Aspira ad una «normalità riscattatrice»: confessa allora i suoi delitti alla madre, giovane e bella borghese troppo presa da benessere e mondanità per curarsi dei disagi del figlioletto. Per essere certo di guadagnarsi l'attenzione della madre,
Marcello ingigantisce il suo crimine: confessa di avere ucciso un gatto. Sua madre, distrattamente, gli risponde di aiutarla ad allacciarsi una collana.
L'indomani, Marcello scorge movimenti dietro la siepe che divide il suo giardino da quello attiguo di Roberto. Un raptus di violenza lo spinge a colpire quel punto con la fionda, sapendo che il suo gesto ucciderà il compagno di giochi. Dietro il fogliame, invece, si nasconde un gatto, che resta effettivamente ucciso. Nel corpo stecchito della sua vittima, Marcello riconosce il gatto di cui, in qualche modo misterioso e inconsapevole, aveva annunciato la morte il giorno prima. La tragedia di Marcello, a questo punto, è bell'e scritta, e tutta la sua vita di conformista seguirà da questo episodio infantile con l'ineluttabilità di un teorema di geometria.

«Egli sapeva che questa fatalità voleva che uccidesse; ma ciò che lo spaventava di più non era tanto l'omicidio quanto di esservi predestinato, qualunque cosa facesse.»

La violenza diventa allora inevitabile per Marcello, come il desiderio costante di nasconderla a sé stesso e agli altri. Continua per tutta la vita a sforzarsi di dimostrare la propria normalità, quando questo significa sposare Giulia, una giovinetta borghese mediocre e che non ama affatto, o quando significa diventare un fascista.
Sebbene la tragedia di Marcello, disperato conformista, sia già inscritta in nuce nella sua infanzia, un dispiegarsi più completo del suo significato meno manifesto deve attendere i tredici anni del protagonista: Lino, un autista pedofilo, adocchia il ragazzino all'uscita da scuola. Lo adesca, allettandolo con la promessa di regalargli una pistola (fin da piccolo, Marcello amava le armi, e non quelle giocattolo ma quelle vere, quelle davvero capaci di uccidere). Lo carica in macchina, lo porta in una villa deserta e lì cerca di consumare la sua violenza sessuale sul piccolo sprovveduto. In un'estremo tentativo di salvarsi, il ragazzino riesce a impadronirsi della famosa pistola ed esplode un colpo contro l'aggressore per poi dileguarsi dalla finestra, lasciando nella stanza chiusa a chiave dall'interno la scena perfetta di un suicidio. Nessuno cercherà il colpevole.
L'uccisione di Lino non verrà mai scoperta e lo stesso Marcello non racconterà l'episodio che al suo confessore, alla vigilia delle nozze. Ma il ricordo di quell'atto di violenza, naturale eppure imprevisto seguito della serie iniziata con le lucertole e il gatto, tormenta il Marcello adulto, lo spinge con maggiore disperazione alla ricerca delle «divinità gemelle della rispettabilità e della normalità». Quando la violenza e il delitto diventano la regola e la normalità, con l'instaurarsi del regime fascista, a Marcello non resta che entrare nella polizia segreta e dedicarsi con abnegazione al lavoro assegnatogli. Quando gli viene commissionato l'omicidio di Quadri, suo professore ai tempi dell'università, diventato antifascista e scappato a Parigi, Marcello accetta con tutta la gravità dovuta ad un rito purificatorio. L'omicidio non è più un comportamento deviante ma il prezzo della normalità.

Quando Bernardo Bertolucci mette mano a Il conformista per farne un film, la storia firmata da Moravia non resta materia inerte ma viene manipolata ed arricchita di risvolti psicologici di sapore freudiano. L'uccisione di Quadri e la reclusione del padre di Marcello in manicomio diventano un duplice simbolo edipico, una doppia figura di padre rinnegata e assassinata (Franco Prono identifica nel doppio parricidio l'ostilità "professionale" di Bertolucci verso i suoi due padri d'arte, Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini). Ma il tassello più pregevole con cui Bernardo Bertolucci arricchisce Il conformista di Moravia è l'esplicitazione di un sottotesto che nel romanzo resta del tutto larvato (al punto che ci si può chiedere se facesse davvero parte delle intenzioni di Moravia o se sia frutto originale di interpretazione). Se nel romanzo il piccolo Marcello uccide Lino per difendersi da un'aggressione violenta, nel film il giovinetto sembra assecondare inizialmente le avances del pedofilo e solo qualche minuto
Jean-Louis Trintignant nel ruolo di Marcello
Clerici ("Il conformista", 1970)
dopo un terrore violento lo spinge al tentato omicidio. La verità è che il giovane Marcello in Lino cerca di assassinare sé stesso, quella parte di sé che non disdegnava l'idea di un rapporto omosessuale. Marcello allora è un criptogay e questa è la radice profonda della "diversità" che ha in qualche modo sempre avvertito e che solo l'incontro con Lino ha portato alla luce in tutta la sua devastante verità. Marcello è omosessuale e non accetta di esserlo, quindi disperatamente conformista, quindi convintamente fascista e dedito alla sua causa con uno zelo che non ha nulla di ideologico né di puramente politico.
Terrorizzato dai rapporti interpersonali autentici, dai tête-à-tête, Marcello è a suo agio nella folla, in autobus, nelle adunanze oceaniche. È il regime che inghiotte il singolo e ne manipola la coscienza, facendosi carico dei suoi delitti per dargli l'impressione di non averli compiuti. Come i nazisti processati a Norimberga dissero di non sentirsi colpevoli dei crimine commessi in quanto si erano limitati ad "eseguire gli ordini", Marcello sente il peso e la gravità delle violenze compiute solo fino a quando è solo nel realizzarle. Quando uccidere non è più l'hobby perverso di un bambino ma la regola del regime, l'ordine che viene dall'alto, non è più una colpa da espiare ma un atto meritorio. L'assurdo diventa generalizzato e chi mantiene la lucidità e l'individualità, come l'antifascista Quadri fuggito a Parigi, diventa il "diverso", l'anormale, il capro espiatorio da sacrificare all'ordine costituito.

domenica 16 marzo 2014

"Il vecchio e il mare" di Ernest Hemingway

«Poi vai e rischia quel che devi rischiare come qualsiasi uomo o uccello o pesce.»


Il vecchio pescatore Santiago, con i suoi frequenti crampi e il vezzo da pescatore solitario di parlare da solo ad alta voce. Il mare, nella figura del magnifico marlin lungo oltre cinque metri e dai fianchi striati di color lavanda. Due protagonisti avvinti in una lotta estrema e a suo modo epica, due avversari che sono tali fino alla morte, senza del resto mai sentirsi nemici.
Per ottantatré giorni il vecchio Santiago non pesca più nulla: la fortuna sembra avere abbandonato la sua barca, che esibisce la vela ammainata come un simbolo di perenne sconfitta. Il giovane Manolin, che di solito lo accompagna al largo, è costretto dai genitori a lavorare con pescatori più fortunati. Il vecchio si sente più solo che mai. Si imbarca da solo e giura a sé stesso che prenderà almeno un pesce e né la vecchiaia, né i crampi, né la cronica assenza di fortuna possono scoraggiarlo, perché «un uomo può essere distrutto, ma non può essere sconfitto». Le difficoltà, il dolore, lo sconforto non
possono motivare una resa.
Il grande pesce abbocca, un marlin maestoso che rapisce il vecchio al mondo per giorni e notti interi, mette alla prova il suo fisico indebolito dall'età, la sua resistenza al mare e alla fatica, la sua fede. Ma la lotta non diventa mai odio, neppure per un attimo, nemmeno nel suo clou, nell'apice della violenza assassina che fa del cacciatore/pescatore quello che è.
La bellezza de "Il vecchio e il mare" sta in quella congiunzione che unisce i due nomi in un tutto realmente organico. Santiago e il mare-marlin non sono antagonisti ma compagni, costretti ad affrontarsi senza odiarsi.


«Vorrei poter dar da mangiare al pesce, pensò. È mio fratello. Ma devo ucciderlo e mantenermi forte per farlo.»


Il pesce non vuole fare del male a Santiago, ma affronta l'inganno dell'esca e poi la violenza dell'attacco con la muta dignità dell'animale nel cui occhio, tutt'altro che stupido, si riflette l'intero mare. Santiago deve fare del male al grosso pesce, ma lo rispetta e a suo modo lo ama. Usa verso la sua vittima quella grazia che può scaturire solo dalla consapevolezza della piccolezza umana, quella gratitudine che i cacciatori primitivi esprimono pregando e lodando il fratello animale che si è lasciato uccidere perché loro possano nutrire sé stessi e altri uomini. Il mondo moderno col suo cinismo è tagliato fuori da questo intimo colloquio tra Santiago e la natura: l'uomo prevale sul pesce come potrebbe farlo un guerriero in uno scontro tra pari, leale e dignitoso, e lo fa provando un acuto senso di umiltà. Il carnofallogocentrismo che Derrida denunciava nella figura del torero come in quella del cacciatore-pescatore, la predominanza violenta dell'uomo (precisamente maschio) sulla natura inerte e sottomessa sono totalmente estranei alla figura poetica e gentile di Santiago, pescatore per necessità e forse per vocazione, ma acutamente consapevole del legame intimo e indissolubile, quasi di sangue, che unisce l'uomo alle altre bestie, tutti ugualmente soli davanti alla morte e alla necessità di affrontarla con coraggio e onestà quando essa si presenti, sotto qualunque forma.

Dopo aver vinto il Premio Pulitzer, Hemingway ottiene anche il Premio Nobel ed entrambi, principalmente, per "Il vecchio e il mare". Con modesta ironia, l'autore disse che il secondo premio gli era stato conferito perché per la prima volta aveva scritto una storia senza usare la parola "shit". In realtà, lo stesso Hemingway era soddisfatto del suo lavoro e in una lettera a Wallace Meyer affermava che il libro «diceva qualcosa sulla dignità dell'animo umano». Nonostante la stroncatura di Dwight Macdonald che etichettò l'opera come eccellente esemplare di midcult, "Il vecchio e il mare" fu largamente apprezzato dal resto della critica e anche calorosamente accolto dal pubblico (se ne vendettero milioni di copie in pochissimo tempo). Nel 1958, il successo fu suggellato da una prima trasposizione cinematografica, diretta da John Sturges sotto la supervisione dello stesso Hemingway.


Il racconto, apparso nel 1952, può sembrare ispirato dal tardo soggiorno cubano di Hemingway, durante il quale si dedicò appunto alla pesca a bordo dell'imbarcazione Pilar, ma il materiale grezzo di cui disponiamo dimostra che la storia era delineata in modo piuttosto preciso nella testa dell'autore già da una quindicina d'anni. Nel '36 Hemingway appuntava: 


«Un vecchio che pescava da solo in un'imbarcazione catturò un grande pesce spada che tirando la pesante cima condusse l'imbarcazione verso il mare aperto. Due giorni dopo il vecchio fu raccolto dai pescatori a 60 miglia verso est, con la testa e la parte anteriore del pesce legate lungo la barca. [...] Il vecchio era rimasto col pesce un giorno e una notte, un altro giorno e un'altra notte mentre il pesce nuotava in profondità e tirava la barca. [...] Mentre era legato lungo la barca i pescicani lo avevano azzannato e il vecchio combatté da solo dalla sua imbarcazione nella Corrente del Golfo, prendendoli a mazzate, a coltellate, colpendoli con un remo, finché fu esausto e i pescecani ebbero mangiato tutto quello che potevano contenere. Quando i pescatori lo raccolsero piangeva nella barca, quasi impazzito per la perdita, e i pescicani stavano ancora nuotando intorno alla barca


Se questa storia (che peraltro pare essere vera) mostra un uomo distrutto per la perdita del corpo del marlin duramente pescato, il finale di Santiago esprime ben altri sentimenti. Sì, il vecchio pescatore di Hemingway è duramente provato nello spirito e riporta segni fisici dello sforzo (i palmi tagliati dalla lenza e sanguinanti) ma ha vinto la sua prova.
Hemingway rifuggiva con forza la violenza per la violenza, e misconosceva qualunque significato ai valori che avessero bisogno dell'uso della violenza per affermarsi. «Questo valeva per la guerra, questo valeva per il patriottismo, questo valeva in generale per i partiti dell'ordine» scrive Fernanda Pivano. Il fratricidio operato da Santiago ai danni del grosso pesce è un atto di tutt'altra natura: è la prova di un uomo che non accetta di dirsi sconfitto e si mette in gioco alla pari con il suo fratello-avversario.

lunedì 10 marzo 2014

Tracce di poesia - Ernesto "Che" Guevara

In "Qu'est que c'est la littérature?" (1948) Sartre scriveva: «Lo scrittore impegnato sa che le parole sono azione: sa che svelare è cambiare, e che non si può svelare se non progettando di cambiare. Ha abbandonato il sogno impossibile di dare un quadro imparziale della Società e della condizione umana. L'uomo è l'essere di fronte al quale nessun essere, nemmeno Dio, può restare imparziale. [...] L'uomo è anche l'essere che non può vedere una situazione senza cambiarla, perché il suo sguardo congela, distrugge o scolpisce o, come fa l'eternità, cambia l'oggetto in se stesso. È nell'amore, nell'odio, nella collera, nella paura, nella gioia, nell'ammirazione, nella speranza, nella disperazione che l'uomo e il mondo si rivelano nella loro verità. [...] Sa che le parole, come dice Brice-Parain, sono "rivoltelle cariche". Se parla, spara.»
Quando Sartre scrive "scrittore" intende "prosatore": il poeta, infatti, non può incarnare la figura dell'intellettuale impegnato. Nella poesia c'è sempre una perdita, un vuoto. Proprio a questa mancanza è imputabile quel "art for art's sake" di matrice wildiana: se si fa arte solo ed esclusivamente per estetica, si rischia di cadere nel vortice della pochezza e dell'inutilità. L'intellettuale è, essenzialmente, la coscienza della società e per palesare la propria essenza deve, per Sartre, scrivere in prosa. 
La domanda sorge spontanea: allora la poesia di Majakovskij? Quella di Neruda? Quella di Che Guevara? 


Ernesto Guevara nasce nel 1928 a Rosario, in Argentina, da una famiglia benestante e acculturata. I genitori di Ernesto, di tendenze liberali e anticlericali, durante la guerra civile in Spagna (1936-1939), si prodigano affinché venga formato un comitato che fornisca aiuto ai Republicanos. 
A causa delle condizioni di salute del piccolo Ernesto, afflitto da asma, la famiglia è costretta a trasferirsi a Còrdoba, la città-sfondo di gran parte dell'infanzia di Ernesto, che si forma intellettualmente leggendo Neruda, Jack London, Jules Verne, Freud e persino Bertrand Russel. Tra le tante attività svolte dal giovane, spicca la fotografia, che costituirà - assieme alla scrittura - una incredibile testimonianza dell'impegno politico del guerrigliero argentino. 
Quando, nel 1945, si trasferisce con la famiglia a Buenos Aires, Ernesto si iscrive alla facoltà di medicina e, nel gennaio del 1950, viaggia in bicicletta fino a Còrdoba, dove viene accolto dalla famiglia del suo amico Alberto Granado, che nel 1951 lo accompagnerà nel famoso viaggio alla scoperta del continente sudamericano prima a bordo della Poderosa II, una motocicletta Northon 300, e poi a piedi. Ernesto annota le impressioni del viaggio nel suo diario "Notas de viaje", che diventerà nel 2004 un film ("I diari della motocicletta"): l'idea che Ernesto, anche influenzato da letture marxiste, partorisce dal viaggio è quella di un Sudamerica devastato dalle diseguaglianze, un Sudamerica che può e deve risorgere in maniera unitaria rovesciando le strutture di potere e ristabilendo una forma di giustizia sociale.
Nel 1953 Ernesto rientra in Argentina e diventa medico, dopo aver sostenuto gli ultimi esami. Riparte immediatamente: è nel dicembre di quello stesso anno che incontra, in Guatemala, la sua prima moglie, Hilda Gadea, una esiliata peruviana che lo avvicina al governo del presidente Jacobo Arbenz Guzmán (che tenta di attuare una rivoluzione sociale attraverso varie riforme) e gli presenta un gruppo di rivoluzionari cubani legati a Fidel Castro, il rivoluzionario che ha scritto dal carcere il "Manifesto alla Nazione", denunciando i crimini della dittatura di Fulgencio Batista. In Guatemala la situazione degenera a seguito di un colpo di stato sostenuto dalla CIA: gli Stati Uniti, secondo il Che, sono una potenza imperialista che ha interessi a frenare l'emancipazione di Paesi in via di sviluppo. Sotto consiglio di Arbenz, il Che (nomignolo che risale a questo periodo) si trasferisce in Messico, dove incontra Fidel Castro e dove aderisce al "Movimento del 26 di luglio", che ha in programma di abbattere la dittatura di Batista. Dal 1956, anno in cui la nave Granma parte alla volta di Cuba, Ernesto si impegna nella guerriglia: è l'inizio della rivoluzione cubana. Nel 1959 Batista fugge e viene instaurato un nuovo governo che nomina Guevara "Cittadino cubano per diritto di nascita" e gli affida ruoli di grande rilievo: a Cuba è il secondo uomo più importante, dopo Castro. Il 1959 è anche l'anno in cui Ernesto divorzia da Hilda per sposare Aleida March, una cubana del "Movimento del 26 di luglio".
A partire dal 1965, dopo una breve latitanza, decide di occuparsi della liberazione degli altri popoli latinoamericani: prima il Congo e poi la Bolivia, dove viene catturato e ucciso dall'esercito nell'ottobre del 1967.

Autoritratto in Thailandia, 1964
L'importanza della scrittura, per il Che, non è solo intimo bisogno di confidarsi, ma è narrazione, inno, lotta e rivoluzione. I versi del guerrigliero argentino trasudano ideologia e evocano un bisogno sostanziale e ineludibile: il bisogno di giustizia sociale. «Il guerrigliero è un riformatore sociale, che prende le armi rispondendo alla protesta carica d'ira del popolo contro i suoi oppressori, e lotta per mutare il regime sociale che mantiene nell'umiliazione e nella miseria tutti i suoi fratelli disarmati» (Da "Scritti, discorsi e diari di guerriglia", 1959-1967): il rivoluzionario (rigorosamente armato) deve far riemergere dall'oblio lo splendore di un'America Latina assoggettata al potere imperialista. La denuncia è chiara e proprio da questa denuncia nasce un ponte che collega Ernesto a Pablo Neruda. D'altronde, non a caso, Ernesto legge "Canto generale" e lo commenta: «Quando il tempo avrà un po' sfumato gli andamenti politici e contemporaneamente - ineluttabilmente - avrà assegnato al popolo la sua definitiva vittoria, questo libro di Neruda si porrà come il più vasto poema sinfonico d'America. [...] È un canto generale d'America che ripercorre tutto ciò che è nostro, dai giganti geografici fino alle povere bestioline del signor monopolio.»
Ecco che la poesia diventa anch'essa impegnata: come potrebbe non esserlo? E come potrebbe l'intellettuale non utilizzare lo strumento di espressione più vicino e affine a sé per urlare? «Ciò significa che all'universo dell'immaginario, del sogno, del fantastico è necessario attribuire un potenziale rivoluzionario, una carica di ribellione, quanto meno simile all'attività liberatoria del guerrigliero che lotta contro la fame nel Terzo Mondo, contro il potere economico che schiaccia e uccide, contro la rapina di colui che possiede già tanto, e ancor più pretende di avere da chi non ha.» (dall'introduzione al libro "Poesie e scritti sulla letteratura e l'arte", a cura di Elena Clementelli e Walter Mauro)

E qui


«Sono meticcio», grida un pittore dalla tavolozza infuocata, 

«Sono meticcio», mi gridano gli animali perseguitati,
«Sono meticcio», esclamano i poeti pellegrini,
«Sono meticcio», riassume l'uomo che mi incontra
nel quotidiano dolore di ogni angolo,
e persino l'enigma di pietra della razza morta
accarezzando una vergine di legno dorato:
«È meticcio questo grottesco figlio delle mie viscere».

Io pure sono meticcio per un altro aspetto:
nella lotta in cui si uniscono e si respingono
le due forze che agitano il mio intelletto,
le forze che mi chiamano sentendo delle mie viscere
lo strano sapore di frutto racchiuso
prima di raggiungere la sua maturità dell'albero.

Mi giro al limite dell'America ispana
ad assaporare un passato che ingloba il continente.
Il ricordo scivola con dolcezza indelebile,
come un lontano suono di campana.


Non c'è arte che sia scevra da una dimensione politica: non è concepibile un'arte che non sia calata nella storia e che dalla storia assorba il suo proprio modo d'essere; le impressioni sensibili si fondono con un sentire più ampio, ideologico, eterno: secoli di soprusi, di aggressioni, di sottomissioni, di sfruttamento. E poi la ribellione, che si sbocconcella in versi di una bellezza inaudita. 

Vecchia Maria

Vecchia Maria, tu vai a morire, 
voglio parlarti seriamente:

La tua vita è stata un rosario completo di agonie, 
non un uomo amato, né salute, né denaro, 
appena la fame da spartire; 
voglio parlare della tua speranza, 
delle tre diverse speranze 
che fabbricò tua figlia senza saper come.

Prendi questa mano d'uomo che pare di bambino 
nelle tue sfregate dal sapone giallo. 
Strofina i tuoi calli duri e le nocche pure 
nella morbida vergogna delle mie mani di medico.

Ascolta, nonna proletaria: 
credi nell'uomo che arriva, 
credi nel futuro che non vedrai mai.

Non pregare il dio inclemente 
che per tutta la vita deluse la tua speranza. 
Non chiedere clemenza alla morte 
per veder crescere le tue grigie carezze; 
i cieli sono sordi e in te comanda il buio; 
soprattutto avrai una rossa vendetta, 
lo giuro per l'esatta dimensione dei miei ideali: 
i tuoi nipoti tutti vivranno l'aurora, 
muori in pace, vecchia combattente.

Vai a morire, vecchia Maria; 
trenta progetti di sudario 
diranno addio con lo sguardo, 
il giorno, tra questi, in cui te ne andrai.

Vai a morire, vecchia Maria, 
rimarranno mute le pareti della sala 
quando la morte si congiungerà con l'asma 
e copuleranno il loro amore nella tua gola.

Quelle tre carezze costruite in bronzo 
(l'unica luce che allevia la tua notte), 
quei tre nipoti vestiti di fame, 
rimpiangeranno i nodi delle vecchie dita 
dove sempre trovavano un sorriso. 
E sarà tutto, vecchia Maria.

La tua vita è stata un rosario di magre agonie, 
non un uomo amato, né salute, letizia, 
appena la fame da spartire, 
la tua vita è stata triste, vecchia Maria.

Quando l'annuncio del riposo eterno 
intorbida il dolore delle tue pupille, 
quando le tue mani di perpetua sguattera 
assorbono l'ultima ingenua carezza, 
pensi a loro... e piangi, 
povera vecchia Maria.

No, non farlo! 
Non pregare il dio indolente 
che per tutta una vita deluse la tua speranza 
e non chiedere clemenza alla morte, 
la tua vita è stata orribilmente vestita di fame, 
e finisce vestita d'asma.

Ma voglio annunciarti, 
con la voce bassa e virile delle speranze, 
la più rossa e virile delle vendette, 
voglio giurarlo per l'esatta 
dimensione dei miei ideali.

Prendi questa mano d'uomo che pare di bambino 
nelle tue sfregate dal sapone giallo, 
strofina i calli duri e le nocche pure 
nella morbida vergogna delle mie mani di medico.

Riposa in pace, vecchia Maria, 
riposa in pace, vecchia combattente, 
i tuoi nipoti tutti vivranno l'aurora, 
LO GIURO.


Persino le parti in prosa (sulla letteratura e sull'arte) non perdono mai del tutto la liricità: il Che scrive inevitabilmente sorretto dall'amore per gli invisibili. Scrive in qualità di lettore, di viaggiatore, di poeta, di guerrigliero, ma mai in qualità di uno solo di questi individui. Ernesto è tutte queste personalità al modo di una sola: fare della sua scrittura (anche quando essa si dedica a considerazioni artistiche) qualcosa di separato dall'impegno politico significherebbe de-naturalizzarla. «Se la silloge di poesie del Che [...] riflette stati d'animo, percezioni del sensibile, slanci di umana vitalità, quando Guevara affronta la storia dell'America Latina nelle sue più profonde strutture, analizzando le radici da cui è poi scaturito il disagio, il malessere, la condizione esistenziale del presente, allora la scrittura comprime il tono di una innata liricità (che appartiene alla mitezza di carattere del guerrigliero liberatore) e va a inoltrarsi nel buio fondo della Storia, con un vigore di schieramento dalla parte delle vittime che sta pure a significare una poetica interpretazione della marxista filosofia della prassi, tutta tesa a sfociare nel conseguimento del socialismo reale come approdo necessario dell'utopia.» E infatti gli scritti sull'arte non sono altro che «commosse ricognizioni sull'arte degli Inca e dei Maya, i due popoli-bersaglio del genocidio della Conquista Spagnola.» 
Il popolo deve essere riscattato e non ci può essere sconfitta: «Hasta la victoria siempre» diventa il motto di chi non può arrendersi, di chi deve lottare (in senso letterale) per garantire possibilità di vita migliori a chi ha conosciuto sempre crepuscoli e mai aurore.
Il Che dà ancora oggi il più grande insegnamento: la rivalsa da un regime di oppressione (che sia politica, ma anche culturale o economica) è ancora possibile, persino quando il numero dei collaborazionisti e dei corrotti sembra maggiore di quello dei sovversivi. E allora hasta siempre, comandante!