giovedì 9 gennaio 2014

"Scorpione e Felice" di Karl Marx

«Per chi ha conosciuto Marx nessuna leggenda è più ridicola di quella che lo raffigura come un uomo scorbutico, amareggiato, inflessibile e inavvicinabile, una sorta di Giove tonante arroccato nell'Olimpo di una solitudine inaccessibile, perennemente intento a scagliare i suoi fulmini e senza mai un sorriso sulle labbra. Una simile descrizione del più allegro e giocondo degli uomini, dell'uomo dall'umorismo spumeggiante e dal riso irresistibilmente contagioso, del più gentile, tenero e simpatico dei compagni di gioco, è una fonte di perenne stupore e di spasso per chiunque lo abbia conosciuto

Queste stupefacenti parole appartengono a Eleanor, la figlia del filosofo tedesco dall'aria burbera e dalla critica spietata. Qualcuno potrebbe pensare che una figliola adorante sia sempre di parte nel descrivere il proprio padre... Eppure, leggere qualche opera di Marx non fa che confermare quegli attributi così sorprendenti di cui fa menzione Eleanor. Un profano della filosofia può sentirsi intimidito di fronte all'immensa mole del Capitale, e anche un lettore avvezzo a testi impegnativi tendenzialmente lo immaginerà come un mattone improponibile, un condensato (uhm, non molto condensato in effetti!) di rigore scientifico, disciplina ideologica, sentenze implacabili. Ebbene, quell'indole burlona di Marx affiora inaspettata anche tra le pagine
dei suoi testi più tecnici e impegnati: si concede battute brillanti con la stessa frequenza di citazioni letterarie e poetiche che rivelano la sua vasta conoscenza umanistica, e un tono fortemente ironico quando non sarcastico pervade tutti i suoi testi.
"Scorpione e Felice" è la testimonianza più pura di questo Marx inaspettato e poco conosciuto: l'apparente nonsense del titolo (che riporta in realtà i nomi dei due protagonisti) è corredato dal sottotitolo definitorio, "romanzo umoristico". Nel 1837, il diciannovenne Karl invia a suo padre un bizzarro regalo di compleanno: alcuni capitoli del manoscritto intitolato "Scorpione e Felice". Più che un romanzo, in realtà, è un anti-romanzo: pervenutoci purtroppo in una forma fortemente frammentata e lacunosa che ne accresce la cripticità e ne mutila il senso, lo scritto giovanile di Marx non sembra molto un'autentica narrazione. La storia di Scorpione, Felice, Merten, Greta, si sfilaccia e perde di vista, un po' per l'assenza di numerosi capitoli andati perduti, un po' per l'attenzione dell'autore che sembrava rivolta a tutt'altro. Infatti, i brevi episodi narrativi sono intercalati da lunghe e brillanti divagazioni: un intero, geniale capitolo è dedicato a «lambiccamenti filologici» sull'origine del nome Merten (e in tale contesto, parlando di uno scoliasta, Marx nota che: «Benché noi non possiamo abbracciare la sua opinione, tuttavia essa merita un apprezzamento critico, giacché è scaturita dallo spirito di un uomo che univa a una straordinaria erudizione una grande capacità di fumare - per cui le sue pergamene erano avvolte dalla sacra esalazione del tabacco ed erano quindi state riempite di oracoli in un sibillino entusiasmo d'incenso»), un altro fornisce una versione alternativa sul senso del celebre incipit giovanneo e sull'essenza del Sacro Verbo (che, scopriamo con stupore, risiede tra le cosce di Greta), da un altro apprendiamo che «il maggiorascato è la lisciviatrice dell'aristocrazia» (proprio così).
Il giovane studente in filosofia non era ancora il grande pensatore che tanto peso avrebbe avuto nella storia dell'Occidente e del mondo, ma dai frammenti di "Scorpione e Felice" trapela una cultura già vasta, piena di riferimenti dotti e ricercati (Hoffmann, Shakespeare, Ovidio, Virgilio, Hegel, Hume, Schiller sono solo alcuni degli autori citati), e quello spirito polemico, decostruttivo e irrequieto che troverà soddisfazione anni dopo nelle critiche a Hegel, a Feuerbach, a Stirner, a Proudhon, ai socialisti utopisti come agli economisti classici, fino a porre il sistema e il metodo marxisti in aperta ostilità contro l'impianto capitalistico-borghese della società.
Un giovane brillante, voglioso di discutere i dogmi indiscutibili e di ritorcersi contro quella borghesia nel cui seno aveva pure avuto la ventura di nascere: tutto il carattere di Marx trasuda da "Scorpione e Felice", che non smette di stupire con il suo tono dissacrante che parodizza e ridicolizza la società del tempo, l'atteggiamento degli accademici, la bigotteria e il filisteismo della borghesia, la religiosità didascalica ed enciclopedica fatta di citazioni latine e legendae aureae sui Santi.

«"Un cavallo, un cavallo, un regno per un cavallo" disse Riccardo III.
"Un uomo, un uomo, me stessa per un uomo" disse Greta.»

Il senso dell'umorismo è il talento di pensare e guardare altrimenti, e la burla è un atteggiamento rivoluzionario. Jean-Paul Sartre era l'incubo dei suoi professori perché non si stancava mai di complottare con i suoi compagni per realizzare scherzi e tormentare gli individui più seriosi. Proprio lui nella novella autobiografica "Gesù la civetta" rivela di essere il «satiro ufficiale» della sua comitiva, ed esalta il canular, l'essere burlone, come autentica forma di sovversione dell'ordine costituito. Poco meno di un secolo prima, Marx mostrava il medesimo spirito e scriveva queste pagine che, benché parziali e frammentarie, si lasciano leggere con curiosità e piacere, regalandoci uno sguardo insolito su un gigante del pensiero.
La bella edizione degli Editori Internazionali Riuniti con testo tedesco a fronte è anche corredata da vignette e annotazioni di Engels, compagno di vita, studio e burle per Marx. E se anche di Engels pensavate fosse un tipo serioso e compito... ricredetevi!

«Noi Friedrich Engels
poeta sommo nel ristorante del municipio di Brema e privilegiato
BEONE
comunichiamo e informiamo a tutti i precedenti, i presenti,
gli assenti e i futuri
che siete tutti asini, creature pigre, che continuano
a essere inferme del tedio della propria esistenza,
canaglie che non mi scrivono e così via.
Dato sul nostro sgabello del bancone
in un momento in cui non avevamo i postumi di uno sbornia

martedì 7 gennaio 2014

"La sonata a Kreutzer", Lev Tolstoj

Durante un viaggio in treno, si accende tra un gruppetto di passeggeri, un'interessante discussione sull'amore, sul matrimonio, ed infine sul ruolo sociale, sui diritti e doveri, della donna. Siamo nella Russia di fine Ottocento. Una vivace signora anima il dibattito, sostenendo che i matrimoni contratti per mero interesse non sono dei veri matrimoni, che l'amore dev'essere il sentimento portante di tale istituzione; l'istruzione, il progresso, hanno fatto sì che non ci fossero più i matrimoni di un tempo, in cui i coniugi si conoscevano il giorno delle nozze, e a loro non restava che cercare di amarsi, o di tollerarsi.
Mentre si discorre in questo modo, si avvicina un uomo con delle idee molto particolari: quelle della signora sono tutte sciocchezze, l’amore di cui si sta parlando non esiste. Esiste l’amore carnale, e il matrimonio è l’istituzione, cristiana e borghese, che regola e garantisce lo sfogo della perversità e della meschinità umana. Quella matrimoniale, è una struttura fallace e dannosa per la società: l’uomo e la donna sono attratti in modo animalesco gli uni dagli altri, ma per quanto tempo? Si finisce per ignorarsi, disprezzarsi, e nel peggiore dei casi, per odiarsi. Finché l’odio non spinge all’estrema azione, il delitto.
Alla fine del dibattito, restano soltanto Pozdnyšev, quest’uomo misterioso, e il nostro narratore, al quale sarà raccontata questa storia tormentata, fatta di insaziabile passione erotica, frustrazione e odio.
Pozdnyšev comincia la sua storia parlando della sua adolescenza, periodo in cui la sua innocenza viene corrotta. Le pulsioni sessuali, il pensiero della nudità della donna, sono ricordate come le perversioni di una natura innocente che decade, corrotta dalla società, dagli amici, e dai suoi stessi istinti, per lui disgustosi e allo stesso tempo irresistibili:

«Non conoscevo ancora le donne, ma, come tutti gli sventurati fanciulli del nostro ambiente, non ero più un ragazzo innocente, già da un anno ero stato corrotto dai ragazzi; la donna, non una donna qualunque, ma la donna come qualcosa di dolce, la donna, ogni donna, la nudità della donna mi tormentava già. I miei isolamenti erano impuri. Mi tormentava come si tormentano i novantanove centesimi dei nostri ragazzi. Inorridivo, soffrivo, pregavo e cadevo.»

Una volta insinuatosi il germe della perversione, questo non può far altro che crescere, nutrito dagli istinti sempre più forti e prepotenti, e dalle occasioni che la società impudica e oscena offre continuamente. E così, la vita del giovane prosegue all’insegna della degradazione e del libertinaggio.  Ed era proprio questo comportamento che garantiva l’approvazione sociale, nei salotti e nelle feste, durante le quali, questi “deprevati trentenni” venivano considerati “l’emblema della purezza”.
Dopo un periodo di bagordi e divertimenti, la società richiede che si prenda moglie. E il nostro giovane, perfettamente integrato nei costumi sconci e ipocriti vigenti, decide di prender moglie, e a tal fine, di cercare una ragazza pura e innocente, di buona famiglia e con una buona educazione. 

«Dapprincipio si finge dinanzi alle fanciulle che quella dissolutezza, che riempie metà della vita delle città e perfino delle campagne, che quella dissolutezza non esista affatto. Poi ci si abitua tanto a questa finzione che finalmente si comincia a credere con sincerità, come gli inglesi, che siamo tutti persone morali e viviamo in un mondo morale.»
Tra moralità e seduzione, i due giovani s’innamorano. Cos’è l’amore? Sentimento misterioso ed incomprensibile, sfuggente e penetrante, sembrerebbe impossibile da descrivere, spiegare, tanto che siamo portati a credere che abbia un’origine semidivina. E invece, la spiegazione di Pozdnyšev è di natura fisiologica. L’amore deriva da un eccesso di cibo, e da una sublimazione degli istinti sessuali primordiali, una sorta di reflusso gastroesofageo- psichico. Se viviamo nel benessere, ingurgitiamo più cibo di quanto necessitiamo. Le energie in eccesso, si trasformano in pulsioni sessuali, e queste cercano di  trovare sfogo in ogni modo; se le si trattiene, ecco l’innamoramento. Tutto ciò che di nobile vediamo nell’amore, non è altro che un maldestro tentativo di nobilitare la nostra propensione alle “porcherie”. Il rapporto tre uomini e donne si riduce a questo: gli uomini guardano le donne come oggetti atti a soddisfare le proprie voglie, e le donne si lasciano guardare, desiderose di essere scelte; le donne sono schiave dei desideri degli uomini, ma allo stesso tempo dominano gli uomini, poiché possono eccitare gli istinti maschili, soddisfarli o respingerli a seconda delle esigenze. I rapporti umani non sono altro che il desiderio più o meno sublimato, di una grande ammucchiata: il matrimonio è l’istituzione che regola tale orgia globale.
Con il matrimonio arrivano i figli, con i figli numerosi litigi. Per Pozdnyšev la peggiore perversione matrimoniale è l’accoppiamento durante la gravidanza, è il modo autentico e primordiale con il quale si oltraggia la donna. L’amore ai fini della procreazione è già di per sé deplorevole, ma questo amore fine a se stesso, è semplice dimostrazione del fatto che non siamo altro che squallide bestie. Perché il genere umano dovrebbe sopravvivere? Se il fine del genere umano è il progressivo miglioramento, fino alla meta finale della perfezione, una volta raggiunta questa, noi esseri umani dovremmo estinguerci. La sessualità è un momento di passaggio: permette che una nuova generazione nasca, e che possa avere successo laddove la precedente ha fallito, ossia nell’annullamento della passione stessa. Nonostante tale visione della natura umana, il percorso individuale di Pozdnyšev è tutt’altro che un percorso di ascesi: scende negli inferi della passione, si sporca con il desiderio sessuale, con la gelosia, con la brama di possesso della propria moglie, fino a raggiungere l’apice, il momento tragico dell’omicidio. I litigi vengono narrati con un ritmo violento, che rimanda ad un amplesso: da un banalità qualsiasi, il tono diventa sempre più acceso e drammatico:
“Si sente che da un momento all’altro può cominciare quel tremendo litigio, in cui si ha voglia di uccidere se stessi o lei. Sai che sta per cominciare, e ne hai paura come del fuoco, e perciò vorresti trattenerti, ma l’ira invade tutto il tuo essere. Lei è in una situazione simile, anzi peggiore, dà un’altra interpretazione ad ogni tua parola, attribuendole un significato falso; ed ogni sua parola è imbevuta di veleno; dovunque sa che posso soffrire di più, là appunto mi colpisce. Più si va innanzi, peggio è. Io grido «Taci», o qualcosa del genere. Lei esce precipitosamente dalla stanza, e corre nella camera dei bambini. Io cerco di trattenerla, per finire il discorso e dimostrarle tutto, la prendo per un braccio. Lei finge che le abbia fatto male, e grida…»
Protagonista di questa storia è anche la musica. Un maestro di violino, Truchačevskij, comincia a frequentare la casa dei due coniugi, accompagnando la moglie del protagonista al pianoforte. Pozdnyšev nutre una profonda gelosia, tormenta se stesso con pensieri vorticosi e contraddittori, sostenendo ora di non essere geloso, ora di essere consumato da questo sentimento, ora negando una relazione tra i due, ora avendone la certezza matematica. La musica è come la passione che nutre per sua moglie, lo trascina fuori da sé, oltre i suoi principi, le sue idee, oltre i suoi stessi sentimenti. Ed è una sensazione sublime, gioiosa e terribile. In particolare, è la Sonata a Kreutzer di Beethoven, suonata nel salotto di casa dai due amanti, che lo trascina in un vortice di emozioni contrastanti:
“Dicono che la musica agisca in modo da elevare l’anima: sono sciocchezze, non è vero. Agisce, agisce terribilmente, parlo di me stesso, ma niente affatto in modo da elevare l’anima; non agisce in modo né da elevare, né da abbassare l’anima, ma in modo da eccitare l’anima. Come dirvi? La musica mi costringe a dimenticarmi di me, della mia vera situazione, mi trasporta in una situazione nuova, e che non è la mia; sotto l’influsso della musica mi pare di sentire quello che in realtà non provo, di capire quello che non capisco, di potere quello che non posso.”

Ascoltando questa sonata, Pozdnyšev pensa che forse la sua gelosia è infondata, comincia a vedere un contegno e una severità in sua moglie, che non aveva mai visto prima. Forse ci può essere un altro finale per questa storia. Ma così non è. La passione, sentimento bieco ed immorale, che allontana l’uomo dalla sua umanità,  che tormenta i suoi pensieri attraverso la gelosia, porterà il protagonista a conficcare un pugnale nel costato di sua moglie, con la coscienza dell’orrore della sua azione, ma con una certezza altrettanto crudele: quella di una forza cieca dentro lui, che lo aveva trascinato nell’oblio, e che mai gli avrebbe permesso di rivedere la luce. 

lunedì 6 gennaio 2014

"Latinoamericana" di Ernesto Che Guevara

Impropriamente noto come "I diari della motocicletta", "Latinoamericana" non è un testo politico ed è praticamente scevro da tecnicismi e asserzioni ideologiche o dottrinarie: non espone una verità già conquistata o un'ideologia già acquisita. È un testo snello, a volte poco più sviluppato di un semplice taccuino di appunti, uno zibaldone di pensieri sparsi e un resoconto asciutto e sbarazzino di un viaggio, ma soprattutto, è il racconto dell'acquisizione di un'ideologia, della maturazione di un pensiero che il giovane Ernesto Guevara ha sviluppato nel corso di un lungo e avventuroso viaggio per l'America Latina: è in questo senso che "Latinoamericana" rappresenta un testo cardine del cosiddetto guevarismo.
Alberto Granado (detto Mial), un giovane biochimico, e il suo amico Ernesto Guevara, non ancora il Che ma
 Fuser, uno studente in medicina prossimo alla laurea, lasciano Buenos Aires in sella alla Poderosa II, una Norton 500 M18 del '39, con un bagaglio essenziale e grandi scorte dell'immancabile mate. È il 4 gennaio 1952 e l'America Latina è martoriata e dissanguata dalle multinazionali, gli indios conservano una percezione triste e rassegnata della propria identità culturale, gli operai e i mineros si assoggettano placidamente allo sfruttamento degli yankee e alle devastanti condizioni in cui versano, bisognosi di lavoro. Il giovane Ernesto non ha ancora nozioni esaurienti di tutto questo, ma la realtà dolorosa dell'America Latina è quanto apprenderà dal lungo e avventuroso viaggio. In otto mesi, lui e Alberto attraversano Chile, Perù, Colombia e infine Venezuela, prima in moto e poi a piedi, scroccando passaggi, imbarcandosi come clandestini, perfino arrivando in un'isolata circostanza a pagare un biglietto! La meta è il lebbrosario di San Pablo, in Perù, dove i due giovani intendono prestare opera di volontariato per un paio di settimane. Come per ogni viaggio che sia degno di essere definito tale, l'importante non è l'arrivo a destinazione ma tutto quanto si trova lungo la via. Ernesto si rende conto realmente delle condizioni di quella che chiama Maiuscola America, e che ritiene sia un'unica grande terra, per certi aspetti omogenea, suddivisa fittiziamente in Stati artificiali e inutili. La miseria e l'ingiustizia che imperversano nel continente fanno fermentare in lui quelle vaghe nozioni su socialismo, marxismo, fanonismo. Le condizioni amare e umilianti degli indios esacerbano i sentimenti di Ernesto verso l'imperialismo, lo sfruttamento dei mineros gli fa comprendere ed odiare la natura del capitalismo. Le sue "Notas de viaje" sono appunti frettolosi sulle sue avventure, intercalati da qualche riflessione sull'ideologia che inizia a comporsi e consolidarsi nel suo animo, come reazione alle molte ingiustizie di cui è per la prima volta testimone oculare. È durante il viaggio con Alberto Granado che nasce il Comandante: la persona che rientra a Buenos Aires nella tarda estate del '52 non è lo stesso giovane perplesso e indeciso che era partito otto mesi prima. La storia e la lotta di Che Guevara stanno per incominciare.
"Latinoamericana" è una lettura facile e ispirante, ricca di aneddoti e di confidenze sincere che permettono al lettore di guardare da vicino il giovane Che ancora in formazione e di scoprire le cause della sua ferrea convinzione. È il resoconto di una scelta che diventa sempre più nitida, gradualmente più consapevole: la scelta tra il perseverare di un sistema ingiusto e vessatorio e la lotta ardente e rivoluzionaria. È un cult da non perdere.

«La notte, che si era ritratta al contatto con le sue parole, mi catturava di nuovo, confondendomi dentro di sé; ma, nonostante le sue parole, adesso sapevo... sapevo che nel momento in cui il grande spirito divino avesse separato con un abisso enorme l'umanità in due sole fazioni antagoniste, io sarei stato con il popolo; e so, perché lo vedo scritto nella notte, che io, eclettico dissezionatore di dottrine e psicanalista di dogmi, ululando come un ossesso, assalterò le barricate e le trincee, tingerò di sangue la mia arma e, pazzo di furia, sgozzerò tutti i vinti che cadranno nelle mie mani. E poi mi vedo, come se una stanchezza enorme sgretolasse la mia esaltazione, cadere immolato all'autentica rivoluzione standardizzatrice delle volontà, e pronunciare il "mea culpa" esemplare. Sento già le mie narici dilatate assaporare l'odore acre della polvere da sparo e del sangue, della morte dei nemici; già contraggo il mio corpo, pronto alla battaglia, e preparo il mio essere come se fosse un recinto sacro, perché in esso risuoni con vibrazioni nuove e nuove speranza l'urlo bestiale del proletariato trionfante.»

Nel 2004, Walter Salles ne ha tratto il film "I diari della motocicletta", diventato così celebre da soppiantare spesso il titolo originale del libro con quello dello stesso film (l'edizione seguente della Piccola Biblioteca Oscar Mondadori è appunto sottotitolata così, oltre a riportare un fotogramma del film in copertina). Nel soggetto sono confluite anche le informazioni tratte dal libro di Alberto Granado, "Un gitano sedentario (Con el Che por America Latina)". Il film ha ricevuto due nomination agli Oscar, vincendone uno per la miglior canzone ("Al otro lado del río").
Nella foto, Gael García Bernal nei panni di Fuser (Ernesto).
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